giovedì 8 gennaio 2009

C'era una volta una rubrica...

NUTOPIA rubrica a cura di Claudia Pecoraro

Nutopia è il paese immaginario creato da John Lennon e Yoko Ono nel 1973: un paese concettuale, la cui cittadinanza può essere ottenuta con una semplice dichiarazione di consapevolezza. Nutopia non ha terra, confini, passaporti, ma solo persone, e tutte le persone di Nutopia sono ambasciatori del paese.

Ma cosa c’entra Nutopia con una rubrica sui musei? A me, che di John&Yoko sono appassionata da un’età che non ricordo più, è sembrato che l’idea di un luogo senza confini e senza passaporti, ma fatto di persone, sia molto vicina all’idea che io ho dei musei.

I musei sono non-luoghi e allo stesso tempo luoghi con un’identità fortemente caratterizzata. Le persone li “abitano”, e ne costituiscono il punto di partenza e il termine ultimo. I musei non devono avere confini né barriere (sociali, economiche, psicologiche e tanto meno architettoniche), devono anzi aprirsi per accrescersi e accrescere, per accogliere e mai respingere.

Anche questa rubrica somiglierà, almeno nelle nostre intenzioni, a Nutopia. Confini non ne prevediamo. L’unico limite, per ovvie ragioni, sarà l’argomento: il mondo dei musei (e delle mostre, che da questi differiscono solo per il loro carattere temporaneo).

Comunemente le recensioni a mostre e musei si focalizzano più sui contenuti (i bei quadri, gli oggetti preziosi ecc.) che non sul loro aspetto comunicativo. Ma quante volte la gente si lamenta che “il museo non comunica”? questo è proprio il punto di vista, troppo poco indagato in Italia, che ci interessa.

I musei possono ispirare, educare, informare, divertire, emozionare, raccontare storie; possono stimolare la creatività, allargare gli orizzonti, aprire le persone a nuovi modi di guardare il mondo, combattere gli stereotipi, generare emozioni, progetti, ricordi.

Attraverso recensioni, interviste, inchieste, storie e aneddoti su personaggi e luoghi, con una cadenza quindicinale, racconteremo la vita che pullula attorno ai musei e alle mostre di oggi e di ieri, in Italia e all’Estero.

(questa rubrica faceva parte della rivista Terranauta http://www.terranauta.it/)

DIARIO - Visita ai Musei Vaticani. Un’esperienza da non consigliare ad un amico

5 gennaio 2009

Andare a far visita ai Musei Vaticani durante le vacanze natalizie non è forse una decisione che brilla per intelletto, ma nessuno dovrebbe pagare una penitenza simile a questa che vi sto per raccontare. Leggere per credere.

La consueta fila lunghissima, che si snoda lungo le mura Vaticane e piega quasi fino a S. Pietro, tutto sommato è scorrevole e ben ordinata. In poco più di mezz’ora ci troviamo di fronte alle porte girevoli del “Grand Hotel Musei Vaticani” addobbato a festa.

Il benvenuto ci mette subito a nostro agio: l’addetto alla sorveglianza, volgendo inflessibilmente le spalle ai visitatori, li invita ad aspettare il proprio turno urlando a cadenza ritmica un verso dall’inflessione militaresca, che suona pressappoco così: STOOOOP!!

Superati i controlli aeroportuali da era post-terroristica - ormai non se ne può più (fare a meno) - , il biglietto d’ingresso costa 14 euro. Naturalmente la cifra non comprende neppure un misero pieghevole che rechi qualche notizia introduttiva ai Musei o una utile mappa per orientarsi e scegliere come organizzare il proprio percorso tra le diverse sezioni.

Per agevolare la nostra visita, decidiamo quindi di acquistare un libretto sintetico che ci faccia da guida. Ne adocchiamo uno che farebbe al caso nostro, e alla domanda «C’è anche in Italiano?» il personale addetto alle vendite, anziché rispondere con un gentile e doveroso «Mi dispiace, le guide in Italiano qui sono terminate, ma sicuramente le potrete trovare in uno dei numerosissimi punti vendita che incontrerete lungo il percorso», risponde con un secco «No!».

Bene, come prima destinazione, pensiamo di privilegiare la maggiore “attrattiva” dei Musei: la Sistine Chapel! (meta ogni anno di oltre quattro milioni di visitatori da tutto il mondo), per poi goderci con calma tutto il resto. Sappiamo bene che per raggiungerla un po’ di fila s’ha da fare, ma non possiamo immaginare quel che ci attende.

Ci uniamo al lento scorrere del pubblico in questa processione profana. Ha inizio il viaggio nel più terribile dei gironi danteschi. Per lunghi minuti non si va né avanti né indietro; ora fa talmente caldo da far mancare l’ossigeno, ora sferza una corrente gelida che ti fa rimettere di corsa sciarpa e cappotto. Tutto è studiato per far sentire a proprio agio l’ospite.

Passano i quarti d’ora e, stretti come sardine, si superano arazzi, affreschi, mosaici, si attraversano le sale delle imponenti carte geografiche, le Stanze di Raffaello, si scendono e si salgono scale. L’assenza di qualsiasi tipo di didascalia o pannello esplicativo rende il luogo il villaggio turistico della pura contemplazione, dove l’unico sentimento dei visitatori sembra essere la “maraviglia” di fronte alla magnificenza dei corridoi. Qui la fruizione della Cultura consiste nel convulso fotografare a destra e a manca, spalancando le bocche arrotondate a forma di «Oooo, che belloooo!» «Wow!» e «Beautifuuul!».

Lungo i corridoi le decine di punti vendita di cui sopra, rifilano guide di bassa qualità a prezzi alti, cartoline, medagliette, rosari, ventagli con l’effige del Cupolone e francobolli di Padre Pio. Mercificazione della cultura è il concetto più banale che ti salta in mente. Una delle conseguenze più immediate: la turista inglese che si fa fotografare dal fidanzato davanti al poster del Giudizio Universale!

Tuttavia, persino noi, che ci sentiamo colti e smaliziati habitué della Cultura (leggasi con quel tanto che basta di ironia), non sfuggiamo ad un meccanismo psicologico perverso e paradossale di cui rimaniamo vittime. Nelle rare sale più ampie delle altre, come quelle dedicate all’arte religiosa contemporanea, dove si potrebbe riacquistare un po’ di ossigeno e spazio intorno a sé, per godere di opere di Sironi, Manzù, Dalì, Bacon e compagni, ormai si preferisce non allontanarsi dalla fila dove si è incolonnati da circa un’ora, per non perdere il posto davanti all’ormai rassicurante cappotto verde della persona che ti precede.

L’insistente segnaletica che indica la Sistina, dapprima incoraggiante, diventa presto angosciosa, dato che la meta non sembra mai avvicinarsi.

Fatica, fastidio, angoscia, prigione, claustrofobia sono le parole che si impossessano di noi; “piacevole” è l’aggettivo più lontano dalla mente di ogni sfortunato avventore.

Capisci che sei finalmente vicino al traguardo alla vista di un nuovo cartello giallo che, con eloquenti vignette, ti detta le indicazioni sui comportamenti da tenere una volta entrati nella Cappella: vietato fotografare, vietato filmare, vietato parlare a voce alta e perfino vietato cadere dalle scale!

Ancora un altro sali e scendi e, carichi di aspettativa, eccoci nel luogo tanto agognato. Premuti gli uni agli altri, abbiamo lo spazio appena sufficiente per tenere a gomiti stretti la guida acquistata ormai tanti metri fa. Impossibilitati a scorrere da vicino i capolavori del Buonarroti, scegliamo un cantuccio strategico e da lì iniziamo il nostro ripasso di storia dell’arte, con le teste sollevate a prova di cervicale. La giornata fuori è grigia, dentro l’assenza totale di qualsiasi illuminazione rende faticosa persino la lettura, distratta continuamente dal «No pictures, please!» del custode che cerca inutilmente di frenare lo scintillio dei flash. Povero Michelangelo!

Terminata la visita alla Cappella, è necessaria una sosta per recuperare le forze e l’entusiasmo. Raggiungiamo l’area di ristoro, più squallida di una mensa d’ospedale, con l’aggravante del frastuono assordante, del disordine caotico e della sporcizia.

Infine, proseguiamo la visita nelle sezioni di arte classica ed egizia, talmente spompati da non aver più voglia di leggere nessuna delle didascalie che avevamo tanto desiderato in principio. Il buio della maggior parte delle vetrine non agevola, del resto, la nostra ormai scarsa disposizione ad approfondire.

A questo punto il passo accelera spontaneamente verso il termine di questo incubo. Mai avevo provato, all’uscita da un museo, un tale senso di sollievo.

MUSEI - Il Museo della Persona. Dove la tua storia diventa memoria di tutti

11 dicembre 2008

Gli esseri umani, sia anonimi che noti, desiderano immortalare la propria storia. Questo è stato il presupposto che ha stimolato la creazione del Museo della Persona, un museo virtuale nato per offrire a tutti l’opportunità di integrare la propria storia in una rete di memoria individuale e collettiva.

Il Museo della Persona è stato fondato a San Paolo del Brasile nel 1991 come museo virtuale con l’obiettivo principale di creare uno spazio dove ciascuna persona potesse avere l’opportunità di preservare la sua storia personale e trasformarla in memoria collettiva.

Nel primo periodo della sua storia, il Museo ha elaborato i primi cd-rom a sfondo storico interattivi del Brasile, in cui sono state riunite interviste diverse e numerose su temi specifici (la storia del commercio, delle squadre di calcio, dei sindacati ecc.). E’ stato poi organizzato una sorta di museo itinerante, attraverso la dislocazione di cabine in strada, nelle stazioni metro e nei locali pubblici, dove la gente comune poteva raccontare la sua storia. Il progetto ha avuto tanto successo da essere replicato circa 2000 volte per tutto il Brasile.

Solo dal 1997 il museo è entrato in Internet e ha subito sfruttato il grande potere dell’interattività e di uno spazio permanentemente aperto in cui chiunque voglia può inserire la sua storia o quella della sua comunità sotto forma di testimonianze audio, video e fotografiche, oltre che consultare l’archivio del museo. Parallelamente il lavoro per le strade è continuato, per diffonderlo tra la popolazione del Brasile, meno del 20% della quale possiede un accesso a Internet. La diffusione è avvenuta poi attraverso ogni mezzo possibile: libri, esposizioni, documentari, programmi radio e televisivi, seminari e laboratori.

La conoscenza di storie individuali, e quindi spesso anche delle proprie radici, contribuisce a rafforzare un senso di identità e di appartenenza ad una determinata comunità. Questo è valido ancora di più in un paese “giovane” come il Brasile, composto da tante etnie diverse. I progetti portati avanti dal Museo hanno avuto un forte impatto sociale sulla comunità locale; ad esempio, il progetto sulla storia delle professioni in estinzione, che ha raccolto testimonianze di lavoratori tra il 1997 e il 1999, è diventato un libro utilizzato oggi nel programma di storia delle scuole del Brasile, oltre che nel programma formativo per alcune professioni.

Dopo 17 anni di attività, oggi il museo è formato da quattro nuclei (Brasile, Canada, Stati Uniti e Portogallo) che collezionano, preservano e condividono storie di vita comune con intenti condivisi. Essere Museo della Persona vuol dire essere responsabili della democratizzazione della memoria sociale a livello locale e della diffusione delle storie locali a livello globale.

«Crediamo che il mondo possa migliorare se si afferma il valore universale della storia del singolo essere umano e la necessità di una comunità globale di narratori e ascoltatori» si trova scritto sul sito del Museo. La sfida è quindi quella di usare le collezioni di storie personali per promuovere azioni di comprensione, educazione, politica positiva, giustizia sociale.

I valori perseguiti dal Museo della Persona ruotano fondamentalmente su tre concetti:
- ogni storia personale ha una valore e deve far parte della memoria sociale
- ogni persona gioca un ruolo attivo nelle trasformazioni della società
- la conoscenza dell’altro è essenziale per rispettare le persone e le culture.

Fedele al principio, espresso dalla poetessa americana Muriel Rukeyser, che “il mondo è fatto di storie, non di atomi”, la missione del Museo è quella di creare una memoria sociale, costruita democraticamente, che contribuisca ad ampliare la nostra visione del mondo, a creare relazioni tra le generazioni, le comunità e le differenti classi di potere, ed a creare prospettive nuove per la nostra società.

Sulla base di questi valori, il Museo della Persona ha organizzato, il 16 maggio di quest’anno, la prima giornata mondiale delle storie di vita (International Day for Sharing Life Stories) in cui, in varie parti del mondo, la gente si è riunita in sale, aule, parchi pubblici, teatri e musei per ascoltare e raccontare le proprie storie.

L’iniziativa, che per l’Italia è stata accolta dalla città di Palermo, si è tenuta in network con decine di comunità di tutto il pianeta, tra le quali Mexico City (Messico), Denver (Usa), Rio De Janeiro (Brasile), Cape Town (Sud Africa) e Mumbai (India). Ed il materiale prodotto, tra fotografie e testimonianze registrate, è entrato a far parte di questo preziosissimo archivio umano che è il Museo della Persona.

NOVITA' E RIFLESSIONI - I musei sbarcano su Second Life. Attenzione ai facili entusiasmi

3 dicembre 2008

Lo scorso novembre è stato presentato nell’Auditorium dell’Ara Pacis il nuovo progetto del sistema dei Musei Civici di Roma, che si sono aperti, per così dire, ai più moderni mezzi di comunicazione informatici. Ma procediamo con ordine.

Da settembre la rete dei Musei in Comune ha attivato un blog che, oltre ad essere uno strumento istituzionale, attraverso la divulgazione di notizie e informazioni sempre aggiornate agli utenti delle “community” di Internet, è anche - come tutti i più comuni blog - un diario, aperto a racconti personali delle visite alle mostre, e uno spazio aperto alle discussioni.

Il blog è anche la piattaforma di partenza per approdare ad altri due strumenti di gran moda in questo momento, in particolar modo tra il pubblico più giovane. Il primo è Flickr, la più vasta “galleria fotografica” sul web delle persone comuni, dove l’utente può curiosare ed incuriosirsi tra le foto delle mostre attuali e passate. Il secondo è l’oramai noto a tutti YouTube, dove sono collegati brevi video-documentari sulle mostre, interviste ad assessori, curatori ecc.

Ma l’aspetto più innovativo è l’ingresso dei musei civici su Second Life, il mondo virtuale popolato dagli “avatar”, creature tridimensionali che hanno nome e aspetto fisico inventati ma che danno vita ad una società del tutto simile a quella umana: costruiscono e abitano case, lavorano, incontrano amici agli aperitivi e, da qualche tempo, frequentano i musei.

Così accade che mostre reali vengano riallestite in questo regno virtuale, come nel caso romano, con l’inaugurazione (con tanto di vernissage) su Second Life della mostra “The Big Bang”, ospitata realmente al Museo Carlo Bilotti fino allo scorso 19 ottobre. Nel suo sdoppiarsi, la mostra utilizza uno spazio italiano che su SL era già presente (Experience Italy), ispirato alle architetture dell’Eur.
Marina Bellini, che gestisce e cura il progetto, e la sua collaboratrice Micaela Cini, hanno sottolineato come, col riallestimento virtuale della mostra, non si sia voluto riproporre quella reale in modo identico, ma come si siano volute sfruttare le infinite possibilità che offre SL, non ultime quella di poter volare ed il teletrasporto. Ogni sala virtuale è stata così scenografata giocando con le opere stesse, scomponendo i quadri e dilatandoli, facendoli diventare parete, pavimento o oggetto in movimento. Il visitatore può così compiere un percorso creativo e coinvolgente.

A chi legittimamente ha chiesto, durante la presentazione, se il moltiplicarsi delle mostre sul web non rischi di impigrirne il pubblico comune, stimolato a visitare questi luoghi della cultura comodamente seduto sulla poltrona di casa, l’assessore alle Politiche Culturali Umberto Croppi ha risposto che questo è solo un arricchimento delle possibilità di fruizione del nostro patrimonio culturale.

Secondo Croppi, SL va inteso come uno strumento di comunicazione formidabile a livello mondiale, terreno privilegiato di cultura, che non sottrae visitatori concreti ai musei: «un utente può entrare in una mostra e decidere se vale la pena o meno di visitarla nella realtà». Inoltre, l’allestimento virtuale di mostre già concluse può diventare un archivio di tempo illimitato dal costo inesistente e alla portata di tutti.

In effetti, la volontà da parte dei musei di interfacciarsi con il proprio pubblico, reale e potenziale in forme sempre più allargate è ormai manifesta e senz’altro lodevole. Gli esempi sono numerosi: il Museo Mart di Rovereto ha il suo spazio su Facebook (lo strumento più diffuso per creare una rete di amici, parenti e conoscenti) e conta migliaia di “amici”, i siti internet dei musei offrono sempre più interattività ai loro utenti, divulgando i loro contenuti in modo via via più coinvolgente e stimolante.

A questo punto, però, ci permettiamo di sollevare qualche incertezza. Tornando all’ingresso dei musei su Second Life, a fronte dei molti vantaggi, bisogna ammettere che questa strana società “doppia” dà avvio a storture di non facile comprensione. Vero è che 53.000 avatar sono compresenti ogni minuto su Second Life, e consideriamoli pure tutti potenziali fruitori di cultura, ma è vero anche che tra questi c’è chi è disposto ad acquistare opere concepite per Second life quotate nel mondo reale fino a 7mila euro.

Bisognerebbe imparare a indagare e conoscere il popolo di navigatori di musei virtuali, che sicuramente sarà mosso da interessi, motivazioni e aspettative differenti dalla gente che frequenta le mostre reali, per fornire loro offerte commisurate alla domanda e insieme dello stesso spessore culturale e sociale dei musei tangibili.

Dall’altra parte, anche gli organizzatori delle mostre virtuali avranno intenti nuovi. Chi frequenta Internet quotidianamente è cosciente di quanto sia naturale il meccanismo di attirare nella propria pagina quanti più utenti possibili (è normale anche per un museo reale voler attirare il maggior numero di visitatori) e, per ottenere tale risultato, spesso vengono utilizzati espedienti che con obiettivi culturali hanno poco a che fare. Non va sottovalutato, peraltro, che attorno a SL girano ormai interessi economici di vaste proporzioni.

L’incontro tra la cultura e la fantasia è di certo avvincente, e lo spazio intimo della navigazione individuale in una mostra all’interno del proprio computer può eliminare la soggezione ed altri ostacoli psicologici comuni tra il pubblico reale.

Il fenomeno è troppo complesso e ancora troppo poco monitorato per trarre conclusioni affrettate.

La speranza è che l’abitudine alla fruizione delle mostre virtuali non appaghi così tanto l’utente del web fino a - mi si perdoni il gioco di parole - sostituire l’insostituibile esperienza della visita al museo, dove è bello avvicinarsi alle opere fino a rischiare di far suonare l’allarme, guardare facce interrogative davanti a didascalie spesso incomprensibili, urtare persone reali e dire “Oh, scusi!”, tagliarsi il dito con la carta del catalogo appena comprato.

MOSTRE - Bruno Munari all’Ara Pacis. Da non perdere

12 novembre 2008

Una grande mostra al Museo dell’Ara Pacis celebra il poliedrico artista milanese nel centenario dalla sua nascita.

Scultore, illustratore, grafico, designer, con la passione per la didattica per l’infanzia e una curiosità smisurata verso tutti i campi della realtà, Munari non è certo un personaggio a cui sia facile dedicare una mostra antologica.

Ogni mostra su Bruno Munari – sottolineano i curatori - è sempre diversa. Non soltanto perché il personaggio è poliedrico ma perché lo spirito del tempo in cui la mostra viene pensata e realizzata è sempre diverso. Peraltro, la ricorrenza del centenario che di norma “storicizza” il personaggio celebrato, in questo caso sottolinea quanto il suo genio creativo sia così partecipe della contemporaneità da non poter essere ancora archiviato nel catalogo della storia.
Anzi, per dirla tutta, il lavoro di Munari, a partire dal suo concetto di metodo fino alla sua applicazione e al risultato oggettivo di opere che trascendono la sua epoca, contiene indicazioni ideali che non sono state ancora pienamente assimilate dalla storia.

Su questi concetti hanno lavorato i curatori per offrire una mostra «emblematica e problematica», suddividendo il corpus ideale di Munari in cinque sezioni tematiche: Dalle due alle tre alle quattro dimensioni, Metodo come metodo, Superare il limite, Annullare il tempo, Scoprire il mondo.

Gli oggetti in mostra sono più di 150, tra sculture, progetti di grafica e di design, bozzetti, studi, manifesti, giochi per bambini, scherzose opere d’arte, molti dei quali il visitatore sentirà familiari perché ormai parte dell’immaginario collettivo.

I contenuti della mostra offrono due livelli di comunicazione, ai bambini che saranno affascinati dalle forme, dai colori e dall’aspetto giocoso delle opere, e agli adulti per i quali la mostra può essere occasione di profonda riflessione. Il percorso espositivo, peraltro, può essere accompagnato dalla vera voce di Bruno Munari che commenta le sue opere.

In occasione della celebrazione di questo “prestigiatore dell’immagine e linguista della fantasia”, parallelamente alla mostra, la città di Roma ospita in forma gratuita una serie di laboratori per bambini e per famiglie, progettati dall’Associazione Bruno Munari e condotti anche da diretti collaboratori del grande artista.

I laboratori, che si terranno al Museo dell’Ara Pacis, al Museo Explora (“Vietato non toccare”, 27 settembre 2008 - 22 febbraio 2009) e alla Casina di Raffaello di Villa Borghese (“Bruno Munari prestigiatore”, 3 ottobre 2008 - 11 gennaio 2009), rappresentano un’opportunità unica per sperimentare l’approccio didattico di Munari, basato su una ricerca tecnico-estetica e psicopedagogia.

Bruno Munari
Museo Ara Pacis, Lungotevere in Augusta
Apertura: da martedì a domenica, ore 9.00-19.00
Ingresso: intero € 8; ridotto € 6
Informazioni: 060608 (tutti i giorni 9.00 - 22.30)
Catalogo Silvana Editoriale
www.arapacis.it

DISQUISIZIONI DI MUSEOLOGIA - Strani linguaggi colonizzano i nostri musei

6 novembre 2008

E’ ora di dire basta alle parole straniere e difficili che imperano nei luoghi della cultura. Che i nostri musei tornino ad essere all’insegna della chiarezza e soprattutto... della lingua italiana!

L’anno scorso, l’allora ministro per i Beni e le Attività Culturali Francesco Rutelli aveva nominato una commissione tecnica per riscrivere il linguaggio dei beni culturali. La commissione - presieduta da linguisti (Luca Serianni), studiosi eminenti (Salvatore Settis), lessicografi e giornalisti, oltre che da esponenti di tutti e quattro i Dipartimenti del ministero - avrebbe dovuto provvedere ad una revisione complessiva del linguaggio e della terminologia non solo degli atti amministrativi del Ministero per i Beni e le Attività Culturali ma anche della vita quotidiana dei musei.


In sostanza, Rutelli invitava, in una lettera circolare inviata dal suo Gabinetto ai direttori generali, a rispettare il linguaggio adoperato dal Codice dei beni culturali e del paesaggio e soprattutto a usare una terminologia che rispondesse il più possibile «a criteri di chiarezza e trasparenza».

Nella circolare si suggeriva anche di evitare l’uso di termini stranieri, in particolare anglicismi, a meno che non si trattasse di neologismi correnti privi di una espressione corrispondente in italiano.

Purtroppo, allo stato attuale, di tale commissione non si è più sentito parlare, né di un documento ufficiale a cui far riferimento. Basta fare un giro, neanche troppo approfondito, tra i musei delle nostre città per accorgersi, già all’ingresso, che i vari “bookshop”, “card” e “tickets” non sono stati sostituiti dai nostrani e demodé “libreria”, “carta” e “biglietti”.

Non possiamo non ricordare che, già nel lontano 1998, una terminologia di strampalata invenzione come “ticketteria” aveva provocato il sarcasmo di Indro Montanelli. Ibrido imbarazzante!

Da allora le “coffee-house” hanno sostituito i “caffè”; i “gadgets” insieme al “merchandising” (prodotti, merci, oggetti) sono venduti in uno “shop” e non in un negozio. La “prenotazione”, desueta perché eccessivamente comprensibile, ha lasciato il posto a “booking” e “reservation”, parole molto più “fashionable” (alla moda)!

Per non parlare poi degli «ipertecnicismi o arcaismi tipici del linguaggio burocratico», che la stessa circolare invitava ad archiviare. Meglio il più consueto “patrimonio culturale”, si diceva, di “giacimenti culturali”. Meglio i vecchi e cari “museo”, “galleria”, “pinacoteca” di “contenitore museale”.

E che dire della parola più abusata di questi tempi: “evento”, che vuol dire tutto e niente (alla lettera “avvenimento passato, concluso”). Non si usa più pubblicizzare mostre, manifestazioni, spettacoli, concerti, fiere. Perché sforzarsi di specificare se ognuno di questi concetti può essere riassunto dalla parola magica? Sono tutti “eventi”.

La commissione nominata non aveva il compito di imporre alcuna sostituzione ma di proporre dei consigli per arginare un fenomeno in crescita in Italia, altrove incomprensibile. Per citare solo due esempi: in Spagna (vedi Museo del Prado) tutto è indicato in spagnolo, di frequente catalano e casigliano, naturalmente con le dovute traduzioni per gli stranieri; in Francia, dove addirittura esiste un organo ministeriale preposto unicamente alla tutela della lingua francese, si assiste a volte all’eccesso opposto (non è infrequente trovare il nostro Michelangelo tradotto in Michel Angel! ).

Se uno dei compiti del ministero è quello di «contribuire a formare e diffondere una cultura nazionale della quale la lingua italiana rappresenta un fondamento imprescindibile», sarebbe giusto che se ne ricordasse anche l’attuale ministro e che continuasse a battere questa strada con più fermezza dei tentativi precedenti.

Difendere la lingua italiana vuol dire difendere la nostra cultura da una stupida massificazione, vuol dire riappropriarci della nostra identità e dimostrare ai milioni di visitatori stranieri che affollano le nostre città, i nostri musei e luoghi d’arte che siamo orgogliosi di essere Italiani. Se non completamente, almeno di quel fiore all’occhiello che è il nostro patrimonio culturale.

MOSTRE - Mario Schifano al GNAM

4 settembre 2008

Ultime settimane per visitare la mostra che la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma dedica a Mario Schifano, grande figura dell’arte italiana e internazionale contemporanea, a dieci anni dalla sua scomparsa.

Con più di centotrenta opere tra dipinti e disegni, la Galleria presenta la prima importante e completa retrospettiva che ricorda questa icona dell’arte, romana di adozione (nasce ad Homs in Libia nel 1934), celebre non solo per le sue opere ma anche per il suo impegno civile e per la sua vita sregolata.

Pur senza entrare nel merito di disquisizioni sulla storia dell’arte contemporanea, è giusto ricordare che Schifano è innalzato oggi a figura cardine nel panorama artistico della capitale ed è considerato fenomeno europeo dalla stessa critica che negli anni ’60 lo stroncava senza appello.

La mostra ripercorre i quarant’anni di produzione artistica di questo “inviato speciale nella realtà”, come lo definisce Achille Bonito Oliva, curatore della mostra, a partire dalle prime opere degli anni ‘50, molte delle quali inedite, grazie ai prestiti di numerosi collezionisti privati.
Decennio dopo decennio, si attraversano così le sale dei suoi famosi quadri monocromi degli anni ’60, in cui il dipinto diventava “schermo”, azzeramento, punto di partenza dove poi avrebbe inserito marchi (Esso, Coca Cola), cifre, lettere, segnali stradali. Poi ancora i cosiddetti “d’après” del 1975, lavori di ripensamento in cui Schifano rifà Magritte, De Chirico, Cezanne e rifà persino se stesso, ripetendo quadri dipinti negli anni passati.

Precursore di una certa avanguardia, e in contatto con artisti internazionali quali Duchamp, Rauschenberg, Jasper Jones ed Andy Warhol, fu tra i primi a sperimentare innesti tra pittura, musica, cinema, video, fotografia (polaroid).

Arte e vita furono inestricabilmente legate nel lavoro di Schifano, che trovava nella quotidianità, nei viaggi e nei ricordi un’inesauribile fonte d’ispirazione: “Io aspetto un segnale per partire. Basta niente, un giornale, un libro, un titolo, un’insegna”.

Per questo motivo il percorso scelto per l’allestimento, quello cronologico, è sicuramente il più corretto. Purtroppo, almeno all’inizio della visita, si fatica un po’ a comprenderlo ma dopo che si capisce il criterio adottato, diventa tutto più chiaro.

L’esposizione è divisa in due parti, su due piani diversi della Galleria, ma anche la comprensione di tale dislocazione è affidata completamente all’intuizione del visitatore, che si trova un po’ disorientato nel districarsi tra le sale della collezione permanente.

Ci chiediamo dove sono le buone vecchie rassicuranti frecce che indicano, o quantomeno consigliano, la direzione del percorso da seguire.
Riguardo all’allestimento, è stato scelto di non accompagnare le opere con alcun testo esplicativo, ad esclusione della biografia all’ingresso della mostra, che dà l’unica chiave di lettura per la comprensione delle opere che si andranno a vedere. Naturalmente questa scelta consente al pubblico di stare a tu per tu con le opere, senza orpelli “disturbanti”. Via alla libera interpretazione personale e, soprattutto, ad una fruizione esclusivamente emozionale della produzione artistica.

Nella pur apprezzabile, ancor più perché rara, possibilità di abbandonarsi al “sentire” le opere, tuttavia si avverte la mancanza di un appoggio alla conoscenza, di un supporto didattico (ideale sarebbe un pieghevole) che accompagni la visita.
La mostra resterà aperta fino al 28 settembre, poi si sposterà a Milano e in Francia, al Museo d'arte moderna di St. Etienne.

GALLERIA NAZIONALE D'ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA
Viale delle Belle Arti, 131 – 00196 Roma
11 giugno - 28 settembre 2008
Apertura: martedì - domenica dalle 8.30 alle 19.30.
Info: 06 32298221
Per le visite guidate: 06 32298451;
Biglietto: € 9 intero – € 7 ridotto
Ingresso per disabili: via Gramsci, 73
Catalogo Electa