giovedì 8 gennaio 2009

STORIA DEI MUSEI - Anacostia, il primo “museo di quartiere”

2 settembre 2008
Il primo “museo di quartiere”, nato in un ghetto afroamericano di Washington, risale agli anni ’60 e tutt’oggi rimane, oltre che un esempio da manuale entrato nella storia mondiale della museologia, un modello a cui ispirarsi. Scopriamone le caratteristiche e le peculiarità che permettono ad un museo di quartiere di definirsi tale.

1966, Aspen. Durante una riunione dei membri dell’American Association of Museums, si conviene che bisogna avvicinare i musei alle persone delle aree a basso reddito attraverso la creazione di mostre rilevanti per stimolare la loro curiosità e la motivazione all’apprendimento.
La Smithsonian Institution, un gigante nel mondo dei musei, decide subito di addentrarsi in un territorio del tutto inesplorato: annuncia così di voler portare un museo in mezzo alla popolazione, e subito riceve richieste da parecchie comunità povere di Washington. Viene scelta la piccola comunità nera di Anacostia, perché lì vi sono rappresentati tutti i mali diffusi nelle moderne città americane.
Si costituisce un comitato consultivo formato da rappresentanti di tutti i settori della comunità: associazioni civiche, gruppi giovanili, associazioni di inquilini, scuole, polizia, gruppi religiosi ecc., i quali durante l’anno incontrano ripetutamente lo staff dello Smithsonian.
Settembre 1967. Nato come estensione della celeberrima istituzione, in un cinema abbandonato a un paio di chilometri dallo Smithsonian, viene inaugurato l’Anacostia Neighbourhood Museum. Suo direttore è nominato John R. Kinard, che lo rimarrà fino alla sua morte nel 1989.
Naturalmente persone che non hanno un posto decente in cui vivere, o prive di qualsiasi formazione professionale, difficilmente possono interessarsi alla civiltà greco-romana o all’arte moderna, costrette come sono a procurare alla famiglia un tetto, abiti e cibo. Ed è proprio da qui, dalle condizioni in cui le persone si trovano, che si deve partire.
La storia di Anacostia è fatta di crimini, droga, disoccupazione, catapecchie, ratti, mancanza di servizi igienici. Il museo di questo quartiere non può permettersi di appendere quadri ai muri. Non si esporranno oggetti storici privi di rapporto con le questioni sociali, né oggetti con cui le persone non possano identificarsi.
Il museo comincia ad affrontare il suo compito raccogliendo e analizzando dati, impostando problemi e cercando soluzioni. Così l’idea della prima mostra nasce discutendo con i bambini e gli adolescenti della zona e comprendendo che il problema più urgente che affligge la città e la campagna sono i ratti. Come era stato affrontato il problema in passato? Ci sono mai state società senza ratti o senza malattie da loro provocate? Quali eventuali vantaggi possono portare i roditori? Quali le conseguenze se si trascura il problema?
Nella mostra itinerante “The rat: man’s invited affliction”, che affianca l’altra in sede “This thing called jazz”, al posto delle vetrine ci sono gabbie piene di topi allo scopo di far osservare alla gente il loro comportamento e le eventuali conseguenze di gettare al posto sbagliato un contenitore di cibo. Seguono mostre sull’AIDS, sulla dieta dei bambini e su tante altre tematiche cruciali per la comunità locale.
Istituzione priva di una collezione permanente, il museo di quartiere (neighbourhood museum, musée de voisinage) nasce quindi con lo scopo di offrire un servizio alla popolazione che vive nella zona in cui esso ha sede. In qualità di organismo indipendente, spetta al museo di stabilire le priorità riguardo alla gestione del personale, alle esposizioni, ai programmi educativi e ogni altra attività, ma esso coinvolge sempre gli abitanti del quartiere nel comitato consultivo.
Centro di documentazione della memoria collettiva del quartiere, in cui si raccolgono per esempio fotografie e testimonianze orali degli abitanti, un museo tale si dà il compito di analizzare la comunità e la sua storia, indagandone la provenienza, la presenza di punti di riferimento, le tradizioni, le persone, i punti deboli in campo economico, sociale, politico, educativo e i possibili miglioramenti.
L’attenzione è focalizzata sui problemi, le speranze, le aspirazioni, i timori, le difficoltà, i sogni della comunità. La comunità, a sua volta, comincia a scoprire attraverso il museo la propria identità e a diventarne orgogliosa. Il senso di appartenenza si consolida. La popolazione parla e discute, il museo è l’orecchio in ascolto.
Il museo offre alla gente del posto una sede per incontrarsi e parlare, presta attenzione ai problemi urgenti e incoraggia le persone a risolverli, sollecita interessi, dalla lotta contro l’alcolismo all’archeologia locale alla pianificazione urbana. Diventa luogo vivo e vissuto, dove si balla, si canta, si lavora, si dibattono questioni sociali, si studia per creare una nuova identità, quella afroamericana nel caso di Anacostia, e dove si affrontano problemi pratici di museologia e museografia.
I fondatori dell’Anacostia Neighbourhood Museum hanno assicurato alla loro comunità un posto nella storia umana. E questa esperienza non è stata fatta solo per la gente di Anacostia ma per la gente di tutto il mondo. Questo museo, oggi rinominato Anacostia Community Museum, è opera di una comunità povera ed esempio per tante grandi istituzioni. Il suo sforzo pionieristico è stato uno dei passi avanti più significativi che siano avvenuti nel mondo dei musei e la sua missione continua ad essere mantenuta da oltre 40 anni.
Anacostia è la prova evidente che un museo non serve solo ad imparare o peggio, a contemplare, la storia dell’arte. Non sarebbe forse il caso di seguirne l’esempio per cercare di affrontare in modo alternativo problemi attualissimi, come la sicurezza, la disoccupazione, i rifiuti o la delinquenza giovanile?


Bibliografia:
Intermediari tra il museo e la comunità, John Kinard 1972
Il ruolo del museo d’arte e del museo di scienze umane e sociali, Georges Henri Rivière 1973

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