
4 febbraio 2008
Si è conclusa la scorsa settimana la prima parte del progetto ARCHAIA - Training Seminars on Research Planning, Characterization, Conservation and Management in Archaeological Sites, organizzato con i fondi della Comunità Europea dalle Università di Copenaghen, di Bologna e di Zadar, a cui ho avuto la fortuna di partecipare. La seconda parte avrà luogo a Bologna in maggio.
Per il seminario formativo sono stati selezionati poco più di 40 partecipanti provenienti da tutto il mondo, giovani e meno giovani, con una formazione avanzata relativa ai beni culturali, in particolar modo archeologici, o con una rilevante esperienza professionale nello stesso campo.
I temi affrontati sono stati molteplici, dall’interpretazione dei resti materiali che l’umanità del passato ci ha lasciato, all’importanza che il loro significato e la loro preservazione hanno per la società contemporanea.
Si è parlato della necessità di creare un linguaggio unitario condiviso in primis dagli stessi archeologi che, occupandosi di periodi ed aree geografiche lontanissimi fra loro, sembrano a volte esprimersi in lingue diverse. Questo sarebbe il primo passo per diffondere le conoscenze acquisite, mettere a disposizione di tutti i risultati raggiunti e aprirsi ad un pubblico sempre più vasto.
E, nonostante l’argomento sia stato affrontato, ancora troppo poco si è sottolineato che l’archeologia rimane una “scienza” irrilevante senza il fondamentale passaggio successivo alla ricerca, cioè quello della comunicazione.
A tal proposito, si è discusso dell’importanza di coinvolgere le comunità locali nei progetti che le missioni archeologiche straniere portano avanti nei paesi del Vicino Oriente, come sta avvenendo nei casi di Petra o di Jerash in Giordania. In luoghi come questi, la gestione della cultura può assumere una valenza politica molto meno marginale di quanto si pensi e giocare un ruolo attivo nel senso dell’identità, del contrasto agli stereotipi e alle intolleranze.
Per esempio, il caso di Petra dimostra come un sito archeologico possa avere un’immagine così pregnante da identificare l’intero Paese con esso, e tale che anche i suoi abitanti vi si identifichino totalmente. E, ancora lo stesso luogo ha stimolato, durante la discussione, importanti riflessioni sulle difficoltà di preservare e gestire un flusso sempre in crescita di visitatori.
Molto si è parlato dell’archeologia del paesaggio, e dell’importanza di caratterizzare il territorio che ha una storia rilevante alle spalle, tenendo ben presente il ruolo che la memoria può avere nella vita moderna.
Naturalmente materie di discussione sono stati anche aspetti più strettamente tecnici della ricerca, quali l’integrazione del lavoro dell’archeologo con i supporti scientifici della chimica, fisica, geologia ecc. E qualcuno ha anche dimostrato che a volte le metodologie tradizionali si rivelano più efficaci di quelle all’avanguardia, come nel caso della fotografia aerea.
Ognuno di questi e dei tanti altri argomenti affrontati, per la loro importanza, avrebbero meritato un seminario a sé, ma il tempo ristretto (3 giorni) ha consentito almeno di stimolare riflessioni ed apprendere dai “racconti” degli altri.
Si torna a casa, insomma, arricchiti dal punto di vista scientifico, ma soprattutto con un bagaglio umano che sempre deriva da incontri di persone di varie provenienze, da scambi di idee, opinioni, progetti.
Si torna a casa con l’entusiasmo di aver preso parte ad un incontro internazionale di persone che, pur lavorando in luoghi distantissimi e occupandosi di realtà diverse, parlano il tuo stesso linguaggio. Eppure, parallelo all’entusiasmo viaggia anche un po’ di sconforto, quello di tornare nel proprio microcosmo, alle difficoltà quotidiane del proprio Paese dove tutto sembra chiuso, piccolo, autoreferenziale.
Tuttavia, promettiamo di tenere a bada lo scoraggiamento, di fare tesoro di questa esperienza e di concentrarci affinché a prevalere sia l’ottimismo.
Si è conclusa la scorsa settimana la prima parte del progetto ARCHAIA - Training Seminars on Research Planning, Characterization, Conservation and Management in Archaeological Sites, organizzato con i fondi della Comunità Europea dalle Università di Copenaghen, di Bologna e di Zadar, a cui ho avuto la fortuna di partecipare. La seconda parte avrà luogo a Bologna in maggio.
Per il seminario formativo sono stati selezionati poco più di 40 partecipanti provenienti da tutto il mondo, giovani e meno giovani, con una formazione avanzata relativa ai beni culturali, in particolar modo archeologici, o con una rilevante esperienza professionale nello stesso campo.
I temi affrontati sono stati molteplici, dall’interpretazione dei resti materiali che l’umanità del passato ci ha lasciato, all’importanza che il loro significato e la loro preservazione hanno per la società contemporanea.
Si è parlato della necessità di creare un linguaggio unitario condiviso in primis dagli stessi archeologi che, occupandosi di periodi ed aree geografiche lontanissimi fra loro, sembrano a volte esprimersi in lingue diverse. Questo sarebbe il primo passo per diffondere le conoscenze acquisite, mettere a disposizione di tutti i risultati raggiunti e aprirsi ad un pubblico sempre più vasto.
E, nonostante l’argomento sia stato affrontato, ancora troppo poco si è sottolineato che l’archeologia rimane una “scienza” irrilevante senza il fondamentale passaggio successivo alla ricerca, cioè quello della comunicazione.
A tal proposito, si è discusso dell’importanza di coinvolgere le comunità locali nei progetti che le missioni archeologiche straniere portano avanti nei paesi del Vicino Oriente, come sta avvenendo nei casi di Petra o di Jerash in Giordania. In luoghi come questi, la gestione della cultura può assumere una valenza politica molto meno marginale di quanto si pensi e giocare un ruolo attivo nel senso dell’identità, del contrasto agli stereotipi e alle intolleranze.
Per esempio, il caso di Petra dimostra come un sito archeologico possa avere un’immagine così pregnante da identificare l’intero Paese con esso, e tale che anche i suoi abitanti vi si identifichino totalmente. E, ancora lo stesso luogo ha stimolato, durante la discussione, importanti riflessioni sulle difficoltà di preservare e gestire un flusso sempre in crescita di visitatori.
Molto si è parlato dell’archeologia del paesaggio, e dell’importanza di caratterizzare il territorio che ha una storia rilevante alle spalle, tenendo ben presente il ruolo che la memoria può avere nella vita moderna.
Naturalmente materie di discussione sono stati anche aspetti più strettamente tecnici della ricerca, quali l’integrazione del lavoro dell’archeologo con i supporti scientifici della chimica, fisica, geologia ecc. E qualcuno ha anche dimostrato che a volte le metodologie tradizionali si rivelano più efficaci di quelle all’avanguardia, come nel caso della fotografia aerea.
Ognuno di questi e dei tanti altri argomenti affrontati, per la loro importanza, avrebbero meritato un seminario a sé, ma il tempo ristretto (3 giorni) ha consentito almeno di stimolare riflessioni ed apprendere dai “racconti” degli altri.
Si torna a casa, insomma, arricchiti dal punto di vista scientifico, ma soprattutto con un bagaglio umano che sempre deriva da incontri di persone di varie provenienze, da scambi di idee, opinioni, progetti.
Si torna a casa con l’entusiasmo di aver preso parte ad un incontro internazionale di persone che, pur lavorando in luoghi distantissimi e occupandosi di realtà diverse, parlano il tuo stesso linguaggio. Eppure, parallelo all’entusiasmo viaggia anche un po’ di sconforto, quello di tornare nel proprio microcosmo, alle difficoltà quotidiane del proprio Paese dove tutto sembra chiuso, piccolo, autoreferenziale.
Tuttavia, promettiamo di tenere a bada lo scoraggiamento, di fare tesoro di questa esperienza e di concentrarci affinché a prevalere sia l’ottimismo.
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