giovedì 8 gennaio 2009

MUSEOLOGIA - L’apprendimento e i musei – II parte

7 marzo 2008


Preferite apprendere attraverso uno studio lungo e faticoso o attraverso il gioco? In questo articolo prendiamo in considerazione le due diverse modalità di apprendimento che applichiamo quasi senza accorgercene nella vita di tutti i giorni... e anche quando andiamo nei musei.


La maggior parte delle persone alle quali viene chiesto come si apprende, rispondono: «Con lo studio!». Si prende un libro, si legge e, se serve, si rilegge, ci si sforza di capire e alla fine si sa.
Il perno centrale è il testo scritto, i contenuti da apprendere sono formulati in linguaggio verbale, quindi sotto forma di simboli. Questi vanno “decodificati”, quindi va recuperato il loro significato e i loro riferimenti; poi bisogna assemblare questi elementi “ricostruendo” tutto ciò che le frasi del testo descrivono. Per questo, tale modo di apprendere viene chiamato simbolico-ricostruttivo. L’intero processo avviene nella mente, e questo lavorio mentale è cosciente e richiede attenzione.
Dall’atra parte, il testo è totalizzante e autosufficiente (al più rimanda ad altri testi). Se si fa bene il lavoro di lettura, decodificazione e ricostruzione, si apprende. Poiché questi lavori sono interamente mentali, l’ambiente di apprendimento migliore è quello più adatto a mantenere attenzione e concentrazione, il più possibile privo di stimoli percettivi, come una stanza silenziosa, una biblioteca ecc.
C’è però un altro modo di apprendere, ed avviene attraverso la percezione e l’azione sulla realtà. Per meglio intenderci: percepisco un oggetto con la vista, il tatto, l’udito; intervengo su di esso con una mia azione fisica e ciò produce un cambiamento nella mia percezione (ad esempio, spingo le dita su un oggetto e l’oggetto si deforma). Siccome l’azione mi è ben nota, dato che l’ho prodotta io, la reazione che constato, che si definisce “percezione differenziale”, produce una conoscenza dell’altro termine, cioè la natura dell’oggetto (l’oggetto è morbido).
Il processo è accrescitivo: in base al risultato ottenuto, agisco ancora, il che produce un nuovo effetto, che guiderà la prossima azione, e così via. Questo apprendimento viene chiamato percettivo-motorio, proprio perché basato su cicli ripetuti di percezione e azione. Imparo facendo “esperienza”, cioè in un continuo scambio di input e output con l’ambiente esterno, che costituisce, a differenza del caso precedente, l’ambiente di apprendimento.
Il modo di apprendere percettivo-motorio è quello, potremmo dire, originario, più antico; lo abbiamo in comune con i nostri parenti animali più stretti: i primati. Il secondo modo, invece, quello simbolico-ricostruttivo, è un portato del linguaggio. Esso è quindi molto recente dato che il linguaggio compare solo con Homo Sapiens, l’uomo moderno attuale, circa centomila anni fa. Il primo è quindi molto ben adattato, il secondo no: non ne ha avuto il tempo (centomila anni nella scala del tempo profondo dell’evoluzione umana sono un’inezia!).
Nel modo simbolico-ricostruttivo l’intero processo è cosciente; bisogna fare attenzione, concentrarsi; il processo è lento; si fa fatica e ci si stanca: studiare, come tutti sanno, è duro. Nel modo percettivo-motorio il processo è largamente non consapevole (non siamo coscienti di tutti i passaggi); è molto rapido; non si compie una particolare fatica; l’esperienza “fluisce”. Tutto ciò ha una conseguenza molto importante: tutti noi preferiamo usare il modo di apprendere percettivo-motorio, quando è possibile.
Appare allora naturale che l’uomo sviluppi un comportamento che lo spinga a fare esperienza e apprendere il più possibile: questo comportamento è il gioco. Il gioco è fare esperienza e apprendere fine a sé stesso, nel senso che è automotivante: non ha bisogno di uno scopo. Proviamo piacere semplicemente a migliorare la nostra prestazione e siamo fortemente attratti a farlo. La forte coloritura emotiva di questo processo è il “trucco” che l’evoluzione ha sviluppato per farcelo praticare il più possibile. Non facciamo che imparare, sviluppando così abilità e conoscenze che ci saranno utili in contesti “seri”.
Dalla nascita ai due anni il bambino non ha ancora sviluppato il sistema simbolico (e infatti non parla): apprende tutto attraverso il sistema percettivo-motorio. Non fa che “giocare” durante tutte le sue ore di veglia: tocca, osserva, manipola, si muove, prova e riprova, e così facendo apprende: svolge quella che è forse la più colossale opera di “studio” della sua vita.
Purtroppo non si può sempre “imparare giocando”, dal momento che solo un campo ben regolato è assoggettabile ad apprendimento per esperienza, un campo cioè dove vi sia una sistematicità e ripetibilità di condizioni ed eventi. E considerando quello che rimane l’obiettivo della nostra discussione, cioè “apprendere al museo”, ci accorgiamo che ben pochi campi ad esso concernenti sono “ben regolati”. Campi come la storia, la storia dell’arte, l’archeologia, la musica non sono assoggettabili a regole precise.
Nei musei non si può imparare attraverso il gioco, dunque? Non necessariamente. Va considerato un altro aspetto del gioco: l’aspetto motivazionale, quell’aura emotiva che ci coinvolge appena entriamo in un ambiente di gioco; il meccanismo tende a agire sempre, purché la situazione sia anche solo genericamente assimilabile al gioco. Possiamo allora provare a far funzionare e sfruttare questa componente emozionale, in modo da attrarre attenzione e interesse su un certo campo.
L’interesse, tutti lo sanno, è la prima molla dell’apprendimento: ci motiva ad approfondire, a informarci, a studiare.
Nel prossimo articolo prenderemo in considerazione proprio la possibilità di applicare il “divertimento” tra le modalità di apprendimento utilizzabili nei musei.


Bibliografia:
Antinucci F. 2004, Comunicare nel museo, Roma-Bari.
Hooper Greenhill E. 2004, Musei: didattica, apprendimento ed edutainment, in Cultura in gioco, a cura di P.A. Valentino, Firenze, pp. 51-77.

Nessun commento:

Posta un commento