5 gennaio 2009
Andare a far visita ai Musei Vaticani durante le vacanze natalizie non è forse una decisione che brilla per intelletto, ma nessuno dovrebbe pagare una penitenza simile a questa che vi sto per raccontare. Leggere per credere.

Il benvenuto ci mette subito a nostro agio: l’addetto alla sorveglianza, volgendo inflessibilmente le spalle ai visitatori, li invita ad aspettare il proprio turno urlando a cadenza ritmica un verso dall’inflessione militaresca, che suona pressappoco così: STOOOOP!!
Superati i controlli aeroportuali da era post-terroristica - ormai non se ne può più (fare a meno) - , il biglietto d’ingresso costa 14 euro. Naturalmente la cifra non comprende neppure un misero pieghevole che rechi qualche notizia introduttiva ai Musei o una utile mappa per orientarsi e scegliere come organizzare il proprio percorso tra le diverse sezioni.
Per agevolare la nostra visita, decidiamo quindi di acquistare un libretto sintetico che ci faccia da guida. Ne adocchiamo uno che farebbe al caso nostro, e alla domanda «C’è anche in Italiano?» il personale addetto alle vendite, anziché rispondere con un gentile e doveroso «Mi dispiace, le guide in Italiano qui sono terminate, ma sicuramente le potrete trovare in uno dei numerosissimi punti vendita che incontrerete lungo il percorso», risponde con un secco «No!».

Ci uniamo al lento scorrere del pubblico in questa processione profana. Ha inizio il viaggio nel più terribile dei gironi danteschi. Per lunghi minuti non si va né avanti né indietro; ora fa talmente caldo da far mancare l’ossigeno, ora sferza una corrente gelida che ti fa rimettere di corsa sciarpa e cappotto. Tutto è studiato per far sentire a proprio agio l’ospite.
Passano i quarti d’ora e, stretti come sardine, si superano arazzi, affreschi, mosaici, si attraversano le sale delle imponenti carte geografiche, le Stanze di Raffaello, si scendono e si salgono scale. L’assenza di qualsiasi tipo di didascalia o pannello esplicativo rende il luogo il villaggio turistico della pura contemplazione, dove l’unico sentimento dei visitatori sembra essere la “maraviglia” di fronte alla magnificenza dei corridoi. Qui la fruizione della Cultura consiste nel convulso fotografare a destra e a manca, spalancando le bocche arrotondate a forma di «Oooo, che belloooo!» «Wow!» e «Beautifuuul!».
Lungo i corridoi le decine di punti vendita di cui sopra, rifilano guide di bassa qualità a prezzi alti, cartoline, medagliette, rosari, ventagli con l’effige del Cupolone e francobolli di Padre Pio. Mercificazione della cultura è il concetto più banale che ti salta in mente. Una delle conseguenze più immediate: la turista inglese che si fa fotografare dal fidanzato davanti al poster del Giudizio Universale!
Tuttavia, persino noi, che ci sentiamo colti e smaliziati habitué della Cultura (leggasi con quel tanto che basta di ironia), non sfuggiamo ad un meccanismo psicologico perverso e paradossale di cui rimaniamo vittime. Nelle rare sale più ampie delle altre, come quelle dedicate all’arte religiosa contemporanea, dove si potrebbe riacquistare un po’ di ossigeno e spazio intorno a sé, per godere di opere di Sironi, Manzù, Dalì, Bacon e compagni, ormai si preferisce non allontanarsi dalla fila dove si è incolonnati da circa un’ora, per non perdere il posto davanti all’ormai rassicurante cappotto verde della persona che ti precede.

Fatica, fastidio, angoscia, prigione, claustrofobia sono le parole che si impossessano di noi; “piacevole” è l’aggettivo più lontano dalla mente di ogni sfortunato avventore.
Capisci che sei finalmente vicino al traguardo alla vista di un nuovo cartello giallo che, con eloquenti vignette, ti detta le indicazioni sui comportamenti da tenere una volta entrati nella Cappella: vietato fotografare, vietato filmare, vietato parlare a voce alta e perfino vietato cadere dalle scale!
Ancora un altro sali e scendi e, carichi di aspettativa, eccoci nel luogo tanto agognato. Premuti gli uni agli altri, abbiamo lo spazio appena sufficiente per tenere a gomiti stretti la guida acquistata ormai tanti metri fa. Impossibilitati a scorrere da vicino i capolavori del Buonarroti, scegliamo un cantuccio strategico e da lì iniziamo il nostro ripasso di storia dell’arte, con le teste sollevate a prova di cervicale. La giornata fuori è grigia, dentro l’assenza totale di qualsiasi illuminazione rende faticosa persino la lettura, distratta continuamente dal «No pictures, please!» del custode che cerca inutilmente di frenare lo scintillio dei flash. Povero Michelangelo!
Terminata la visita alla Cappella, è necessaria una sosta per recuperare le forze e l’entusiasmo. Raggiungiamo l’area di ristoro, più squallida di una mensa d’ospedale, con l’aggravante del frastuono assordante, del disordine caotico e della sporcizia.
Infine, proseguiamo la visita nelle sezioni di arte classica ed egizia, talmente spompati da non aver più voglia di leggere nessuna delle didascalie che avevamo tanto desiderato in principio. Il buio della maggior parte delle vetrine non agevola, del resto, la nostra ormai scarsa disposizione ad approfondire.
A questo punto il passo accelera spontaneamente verso il termine di questo incubo. Mai avevo provato, all’uscita da un museo, un tale senso di sollievo.
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