giovedì 8 gennaio 2009

MOSTRA - Quando l’arte diventa spot

24 aprile 2008

Il David in jeans, la Gioconda con la messa in piega, un Campari servito dalla barista delle Follies Bergère di Manet... Da molti anni spot televisivi e manifesti pubblicitari giocano ad associare, far contrastare, combinare in nuovi accostamenti arte classica e messaggi moderni. Vediamo come la cultura classica continua a manifestarsi nei meccanismi della comunicazione d’oggi.

Il David in jeans, la Gioconda con la messa in piega, il quadro di Picasso rivisitato con le scatole della pasta Barilla, un Campari servito dalla barista delle Follies Bergère di Manet, la Venere di Botticelli che indossa un diamante De Beers. Un classico, se è veramente tale, non teme la rielaborazione, e neppure la dissacrazione e la falsificazione. Anzi: attraverso la reinvenzione o il gioco ironico del creativo pubblicitario, il classico resiste all’usura del tempo, dà prova della sua potenza estetica, rilancia l’energia del suo proprio, inimitabile, segno.

Convocati come testimonial di eccezione, provocati a uscire dagli ingessati stereotipi della museificazione, i classici dell’arte antica, rinascimentale, moderna, trovano nella pubblicità un terreno eccezionale di rivalorizzazione e di nuova vitalità.
Proprio l’accostamento tra arte classica e pubblicità è stato il fil rouge di una piccola ma interessantissima mostra, da poco conclusa, alla Triennale di Milano, dal titolo “Classico Manifesto”.

«I classici traggono gran beneficio dall'uso improprio che ne fa la pubblicità - ha detto la curatrice della mostra Monica Centenni - mentre la pubblicità citando il classico mette in movimento miti, simboli e migliora la sua efficacia grazie al contatto con il patrimonio culturale condiviso.

Il lavoro del creativo pubblicitario rivitalizza il classico e, così facendo, rimette in circolo saperi, oggetti e stili della memoria collettiva».
Un messaggio nuovo, insomma, colpisce di più se viene presentato da un “amico di lunga data”, cioè un capolavoro, di quei capolavori radicati così profondamente da accompagnarci sempre. Ecco perché, in parole povere, un paio di jeans indossati dal David di Michelangelo fa più colpo e si imprime meglio nella mente del pubblico dello stesso paio di jeans addosso a un ragazzo, seppure bellissimo.
A queste conclusioni ci arrivò un curioso personaggio, vissuto a metà tra Otto e Novecento, il professor Aby Moritz Warburg. Ebreo di sangue, amburghese di cuore e fiorentino di anima – come amava definirsi – passò la sua vita a studiare: prima storia dell’arte e psicologia nelle università tedesche, poi il comportamento degli Indiani d’America, poi la pittura fiorentina del Rinascimento.


Figlio di una famiglia di ricchi banchieri, lasciò al fratello la conduzione e la proprietà degli affari a condizione che gli fosse permesso di acquistare tutti i libri che desiderava. Si trovò così a poter costituire la più innovativa delle biblioteche, dove si divertì ad accostare epoche e culture, raffrontando immagini di origini diverse, ma di valenza analoga.
Pitture, sculture, monete venivano a formare un complesso caleidoscopio, in cui lui ricreava un ordine proprio. In sostanza faceva collegamenti innovativi tra passato e presente, così da proporre modelli di comunicazione particolarmente efficaci, partendo da “schemi fondamentali del pensiero” elaborati dalla cultura classica, radicati nella psiche umana.

Warburg finì in manicomio, non si sa se per colpa dei libri, del suo gioco mentale disordine-ordine o per la malignità della sua epoca conformista. Tornò poi a fare conferenze e scrivere articoli, finché non morì lasciando un piccolo gruppo di discepoli che continuarono i suoi studi e mantennero viva la biblioteca ormai di 65.000 volumi.
Uno di questi, intuendo che la Germania di Hitler non sarebbe stata tollerante con questo tipo di studi, noleggiò una nave ad Amburgo e portò la raccolta in salvo a Londra, dove tuttora esiste il Warburg Institute, centro di studi di sofisticata intelligenza.

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