giovedì 8 gennaio 2009

C'era una volta una rubrica...

NUTOPIA rubrica a cura di Claudia Pecoraro

Nutopia è il paese immaginario creato da John Lennon e Yoko Ono nel 1973: un paese concettuale, la cui cittadinanza può essere ottenuta con una semplice dichiarazione di consapevolezza. Nutopia non ha terra, confini, passaporti, ma solo persone, e tutte le persone di Nutopia sono ambasciatori del paese.

Ma cosa c’entra Nutopia con una rubrica sui musei? A me, che di John&Yoko sono appassionata da un’età che non ricordo più, è sembrato che l’idea di un luogo senza confini e senza passaporti, ma fatto di persone, sia molto vicina all’idea che io ho dei musei.

I musei sono non-luoghi e allo stesso tempo luoghi con un’identità fortemente caratterizzata. Le persone li “abitano”, e ne costituiscono il punto di partenza e il termine ultimo. I musei non devono avere confini né barriere (sociali, economiche, psicologiche e tanto meno architettoniche), devono anzi aprirsi per accrescersi e accrescere, per accogliere e mai respingere.

Anche questa rubrica somiglierà, almeno nelle nostre intenzioni, a Nutopia. Confini non ne prevediamo. L’unico limite, per ovvie ragioni, sarà l’argomento: il mondo dei musei (e delle mostre, che da questi differiscono solo per il loro carattere temporaneo).

Comunemente le recensioni a mostre e musei si focalizzano più sui contenuti (i bei quadri, gli oggetti preziosi ecc.) che non sul loro aspetto comunicativo. Ma quante volte la gente si lamenta che “il museo non comunica”? questo è proprio il punto di vista, troppo poco indagato in Italia, che ci interessa.

I musei possono ispirare, educare, informare, divertire, emozionare, raccontare storie; possono stimolare la creatività, allargare gli orizzonti, aprire le persone a nuovi modi di guardare il mondo, combattere gli stereotipi, generare emozioni, progetti, ricordi.

Attraverso recensioni, interviste, inchieste, storie e aneddoti su personaggi e luoghi, con una cadenza quindicinale, racconteremo la vita che pullula attorno ai musei e alle mostre di oggi e di ieri, in Italia e all’Estero.

(questa rubrica faceva parte della rivista Terranauta http://www.terranauta.it/)

DIARIO - Visita ai Musei Vaticani. Un’esperienza da non consigliare ad un amico

5 gennaio 2009

Andare a far visita ai Musei Vaticani durante le vacanze natalizie non è forse una decisione che brilla per intelletto, ma nessuno dovrebbe pagare una penitenza simile a questa che vi sto per raccontare. Leggere per credere.

La consueta fila lunghissima, che si snoda lungo le mura Vaticane e piega quasi fino a S. Pietro, tutto sommato è scorrevole e ben ordinata. In poco più di mezz’ora ci troviamo di fronte alle porte girevoli del “Grand Hotel Musei Vaticani” addobbato a festa.

Il benvenuto ci mette subito a nostro agio: l’addetto alla sorveglianza, volgendo inflessibilmente le spalle ai visitatori, li invita ad aspettare il proprio turno urlando a cadenza ritmica un verso dall’inflessione militaresca, che suona pressappoco così: STOOOOP!!

Superati i controlli aeroportuali da era post-terroristica - ormai non se ne può più (fare a meno) - , il biglietto d’ingresso costa 14 euro. Naturalmente la cifra non comprende neppure un misero pieghevole che rechi qualche notizia introduttiva ai Musei o una utile mappa per orientarsi e scegliere come organizzare il proprio percorso tra le diverse sezioni.

Per agevolare la nostra visita, decidiamo quindi di acquistare un libretto sintetico che ci faccia da guida. Ne adocchiamo uno che farebbe al caso nostro, e alla domanda «C’è anche in Italiano?» il personale addetto alle vendite, anziché rispondere con un gentile e doveroso «Mi dispiace, le guide in Italiano qui sono terminate, ma sicuramente le potrete trovare in uno dei numerosissimi punti vendita che incontrerete lungo il percorso», risponde con un secco «No!».

Bene, come prima destinazione, pensiamo di privilegiare la maggiore “attrattiva” dei Musei: la Sistine Chapel! (meta ogni anno di oltre quattro milioni di visitatori da tutto il mondo), per poi goderci con calma tutto il resto. Sappiamo bene che per raggiungerla un po’ di fila s’ha da fare, ma non possiamo immaginare quel che ci attende.

Ci uniamo al lento scorrere del pubblico in questa processione profana. Ha inizio il viaggio nel più terribile dei gironi danteschi. Per lunghi minuti non si va né avanti né indietro; ora fa talmente caldo da far mancare l’ossigeno, ora sferza una corrente gelida che ti fa rimettere di corsa sciarpa e cappotto. Tutto è studiato per far sentire a proprio agio l’ospite.

Passano i quarti d’ora e, stretti come sardine, si superano arazzi, affreschi, mosaici, si attraversano le sale delle imponenti carte geografiche, le Stanze di Raffaello, si scendono e si salgono scale. L’assenza di qualsiasi tipo di didascalia o pannello esplicativo rende il luogo il villaggio turistico della pura contemplazione, dove l’unico sentimento dei visitatori sembra essere la “maraviglia” di fronte alla magnificenza dei corridoi. Qui la fruizione della Cultura consiste nel convulso fotografare a destra e a manca, spalancando le bocche arrotondate a forma di «Oooo, che belloooo!» «Wow!» e «Beautifuuul!».

Lungo i corridoi le decine di punti vendita di cui sopra, rifilano guide di bassa qualità a prezzi alti, cartoline, medagliette, rosari, ventagli con l’effige del Cupolone e francobolli di Padre Pio. Mercificazione della cultura è il concetto più banale che ti salta in mente. Una delle conseguenze più immediate: la turista inglese che si fa fotografare dal fidanzato davanti al poster del Giudizio Universale!

Tuttavia, persino noi, che ci sentiamo colti e smaliziati habitué della Cultura (leggasi con quel tanto che basta di ironia), non sfuggiamo ad un meccanismo psicologico perverso e paradossale di cui rimaniamo vittime. Nelle rare sale più ampie delle altre, come quelle dedicate all’arte religiosa contemporanea, dove si potrebbe riacquistare un po’ di ossigeno e spazio intorno a sé, per godere di opere di Sironi, Manzù, Dalì, Bacon e compagni, ormai si preferisce non allontanarsi dalla fila dove si è incolonnati da circa un’ora, per non perdere il posto davanti all’ormai rassicurante cappotto verde della persona che ti precede.

L’insistente segnaletica che indica la Sistina, dapprima incoraggiante, diventa presto angosciosa, dato che la meta non sembra mai avvicinarsi.

Fatica, fastidio, angoscia, prigione, claustrofobia sono le parole che si impossessano di noi; “piacevole” è l’aggettivo più lontano dalla mente di ogni sfortunato avventore.

Capisci che sei finalmente vicino al traguardo alla vista di un nuovo cartello giallo che, con eloquenti vignette, ti detta le indicazioni sui comportamenti da tenere una volta entrati nella Cappella: vietato fotografare, vietato filmare, vietato parlare a voce alta e perfino vietato cadere dalle scale!

Ancora un altro sali e scendi e, carichi di aspettativa, eccoci nel luogo tanto agognato. Premuti gli uni agli altri, abbiamo lo spazio appena sufficiente per tenere a gomiti stretti la guida acquistata ormai tanti metri fa. Impossibilitati a scorrere da vicino i capolavori del Buonarroti, scegliamo un cantuccio strategico e da lì iniziamo il nostro ripasso di storia dell’arte, con le teste sollevate a prova di cervicale. La giornata fuori è grigia, dentro l’assenza totale di qualsiasi illuminazione rende faticosa persino la lettura, distratta continuamente dal «No pictures, please!» del custode che cerca inutilmente di frenare lo scintillio dei flash. Povero Michelangelo!

Terminata la visita alla Cappella, è necessaria una sosta per recuperare le forze e l’entusiasmo. Raggiungiamo l’area di ristoro, più squallida di una mensa d’ospedale, con l’aggravante del frastuono assordante, del disordine caotico e della sporcizia.

Infine, proseguiamo la visita nelle sezioni di arte classica ed egizia, talmente spompati da non aver più voglia di leggere nessuna delle didascalie che avevamo tanto desiderato in principio. Il buio della maggior parte delle vetrine non agevola, del resto, la nostra ormai scarsa disposizione ad approfondire.

A questo punto il passo accelera spontaneamente verso il termine di questo incubo. Mai avevo provato, all’uscita da un museo, un tale senso di sollievo.

MUSEI - Il Museo della Persona. Dove la tua storia diventa memoria di tutti

11 dicembre 2008

Gli esseri umani, sia anonimi che noti, desiderano immortalare la propria storia. Questo è stato il presupposto che ha stimolato la creazione del Museo della Persona, un museo virtuale nato per offrire a tutti l’opportunità di integrare la propria storia in una rete di memoria individuale e collettiva.

Il Museo della Persona è stato fondato a San Paolo del Brasile nel 1991 come museo virtuale con l’obiettivo principale di creare uno spazio dove ciascuna persona potesse avere l’opportunità di preservare la sua storia personale e trasformarla in memoria collettiva.

Nel primo periodo della sua storia, il Museo ha elaborato i primi cd-rom a sfondo storico interattivi del Brasile, in cui sono state riunite interviste diverse e numerose su temi specifici (la storia del commercio, delle squadre di calcio, dei sindacati ecc.). E’ stato poi organizzato una sorta di museo itinerante, attraverso la dislocazione di cabine in strada, nelle stazioni metro e nei locali pubblici, dove la gente comune poteva raccontare la sua storia. Il progetto ha avuto tanto successo da essere replicato circa 2000 volte per tutto il Brasile.

Solo dal 1997 il museo è entrato in Internet e ha subito sfruttato il grande potere dell’interattività e di uno spazio permanentemente aperto in cui chiunque voglia può inserire la sua storia o quella della sua comunità sotto forma di testimonianze audio, video e fotografiche, oltre che consultare l’archivio del museo. Parallelamente il lavoro per le strade è continuato, per diffonderlo tra la popolazione del Brasile, meno del 20% della quale possiede un accesso a Internet. La diffusione è avvenuta poi attraverso ogni mezzo possibile: libri, esposizioni, documentari, programmi radio e televisivi, seminari e laboratori.

La conoscenza di storie individuali, e quindi spesso anche delle proprie radici, contribuisce a rafforzare un senso di identità e di appartenenza ad una determinata comunità. Questo è valido ancora di più in un paese “giovane” come il Brasile, composto da tante etnie diverse. I progetti portati avanti dal Museo hanno avuto un forte impatto sociale sulla comunità locale; ad esempio, il progetto sulla storia delle professioni in estinzione, che ha raccolto testimonianze di lavoratori tra il 1997 e il 1999, è diventato un libro utilizzato oggi nel programma di storia delle scuole del Brasile, oltre che nel programma formativo per alcune professioni.

Dopo 17 anni di attività, oggi il museo è formato da quattro nuclei (Brasile, Canada, Stati Uniti e Portogallo) che collezionano, preservano e condividono storie di vita comune con intenti condivisi. Essere Museo della Persona vuol dire essere responsabili della democratizzazione della memoria sociale a livello locale e della diffusione delle storie locali a livello globale.

«Crediamo che il mondo possa migliorare se si afferma il valore universale della storia del singolo essere umano e la necessità di una comunità globale di narratori e ascoltatori» si trova scritto sul sito del Museo. La sfida è quindi quella di usare le collezioni di storie personali per promuovere azioni di comprensione, educazione, politica positiva, giustizia sociale.

I valori perseguiti dal Museo della Persona ruotano fondamentalmente su tre concetti:
- ogni storia personale ha una valore e deve far parte della memoria sociale
- ogni persona gioca un ruolo attivo nelle trasformazioni della società
- la conoscenza dell’altro è essenziale per rispettare le persone e le culture.

Fedele al principio, espresso dalla poetessa americana Muriel Rukeyser, che “il mondo è fatto di storie, non di atomi”, la missione del Museo è quella di creare una memoria sociale, costruita democraticamente, che contribuisca ad ampliare la nostra visione del mondo, a creare relazioni tra le generazioni, le comunità e le differenti classi di potere, ed a creare prospettive nuove per la nostra società.

Sulla base di questi valori, il Museo della Persona ha organizzato, il 16 maggio di quest’anno, la prima giornata mondiale delle storie di vita (International Day for Sharing Life Stories) in cui, in varie parti del mondo, la gente si è riunita in sale, aule, parchi pubblici, teatri e musei per ascoltare e raccontare le proprie storie.

L’iniziativa, che per l’Italia è stata accolta dalla città di Palermo, si è tenuta in network con decine di comunità di tutto il pianeta, tra le quali Mexico City (Messico), Denver (Usa), Rio De Janeiro (Brasile), Cape Town (Sud Africa) e Mumbai (India). Ed il materiale prodotto, tra fotografie e testimonianze registrate, è entrato a far parte di questo preziosissimo archivio umano che è il Museo della Persona.

NOVITA' E RIFLESSIONI - I musei sbarcano su Second Life. Attenzione ai facili entusiasmi

3 dicembre 2008

Lo scorso novembre è stato presentato nell’Auditorium dell’Ara Pacis il nuovo progetto del sistema dei Musei Civici di Roma, che si sono aperti, per così dire, ai più moderni mezzi di comunicazione informatici. Ma procediamo con ordine.

Da settembre la rete dei Musei in Comune ha attivato un blog che, oltre ad essere uno strumento istituzionale, attraverso la divulgazione di notizie e informazioni sempre aggiornate agli utenti delle “community” di Internet, è anche - come tutti i più comuni blog - un diario, aperto a racconti personali delle visite alle mostre, e uno spazio aperto alle discussioni.

Il blog è anche la piattaforma di partenza per approdare ad altri due strumenti di gran moda in questo momento, in particolar modo tra il pubblico più giovane. Il primo è Flickr, la più vasta “galleria fotografica” sul web delle persone comuni, dove l’utente può curiosare ed incuriosirsi tra le foto delle mostre attuali e passate. Il secondo è l’oramai noto a tutti YouTube, dove sono collegati brevi video-documentari sulle mostre, interviste ad assessori, curatori ecc.

Ma l’aspetto più innovativo è l’ingresso dei musei civici su Second Life, il mondo virtuale popolato dagli “avatar”, creature tridimensionali che hanno nome e aspetto fisico inventati ma che danno vita ad una società del tutto simile a quella umana: costruiscono e abitano case, lavorano, incontrano amici agli aperitivi e, da qualche tempo, frequentano i musei.

Così accade che mostre reali vengano riallestite in questo regno virtuale, come nel caso romano, con l’inaugurazione (con tanto di vernissage) su Second Life della mostra “The Big Bang”, ospitata realmente al Museo Carlo Bilotti fino allo scorso 19 ottobre. Nel suo sdoppiarsi, la mostra utilizza uno spazio italiano che su SL era già presente (Experience Italy), ispirato alle architetture dell’Eur.
Marina Bellini, che gestisce e cura il progetto, e la sua collaboratrice Micaela Cini, hanno sottolineato come, col riallestimento virtuale della mostra, non si sia voluto riproporre quella reale in modo identico, ma come si siano volute sfruttare le infinite possibilità che offre SL, non ultime quella di poter volare ed il teletrasporto. Ogni sala virtuale è stata così scenografata giocando con le opere stesse, scomponendo i quadri e dilatandoli, facendoli diventare parete, pavimento o oggetto in movimento. Il visitatore può così compiere un percorso creativo e coinvolgente.

A chi legittimamente ha chiesto, durante la presentazione, se il moltiplicarsi delle mostre sul web non rischi di impigrirne il pubblico comune, stimolato a visitare questi luoghi della cultura comodamente seduto sulla poltrona di casa, l’assessore alle Politiche Culturali Umberto Croppi ha risposto che questo è solo un arricchimento delle possibilità di fruizione del nostro patrimonio culturale.

Secondo Croppi, SL va inteso come uno strumento di comunicazione formidabile a livello mondiale, terreno privilegiato di cultura, che non sottrae visitatori concreti ai musei: «un utente può entrare in una mostra e decidere se vale la pena o meno di visitarla nella realtà». Inoltre, l’allestimento virtuale di mostre già concluse può diventare un archivio di tempo illimitato dal costo inesistente e alla portata di tutti.

In effetti, la volontà da parte dei musei di interfacciarsi con il proprio pubblico, reale e potenziale in forme sempre più allargate è ormai manifesta e senz’altro lodevole. Gli esempi sono numerosi: il Museo Mart di Rovereto ha il suo spazio su Facebook (lo strumento più diffuso per creare una rete di amici, parenti e conoscenti) e conta migliaia di “amici”, i siti internet dei musei offrono sempre più interattività ai loro utenti, divulgando i loro contenuti in modo via via più coinvolgente e stimolante.

A questo punto, però, ci permettiamo di sollevare qualche incertezza. Tornando all’ingresso dei musei su Second Life, a fronte dei molti vantaggi, bisogna ammettere che questa strana società “doppia” dà avvio a storture di non facile comprensione. Vero è che 53.000 avatar sono compresenti ogni minuto su Second Life, e consideriamoli pure tutti potenziali fruitori di cultura, ma è vero anche che tra questi c’è chi è disposto ad acquistare opere concepite per Second life quotate nel mondo reale fino a 7mila euro.

Bisognerebbe imparare a indagare e conoscere il popolo di navigatori di musei virtuali, che sicuramente sarà mosso da interessi, motivazioni e aspettative differenti dalla gente che frequenta le mostre reali, per fornire loro offerte commisurate alla domanda e insieme dello stesso spessore culturale e sociale dei musei tangibili.

Dall’altra parte, anche gli organizzatori delle mostre virtuali avranno intenti nuovi. Chi frequenta Internet quotidianamente è cosciente di quanto sia naturale il meccanismo di attirare nella propria pagina quanti più utenti possibili (è normale anche per un museo reale voler attirare il maggior numero di visitatori) e, per ottenere tale risultato, spesso vengono utilizzati espedienti che con obiettivi culturali hanno poco a che fare. Non va sottovalutato, peraltro, che attorno a SL girano ormai interessi economici di vaste proporzioni.

L’incontro tra la cultura e la fantasia è di certo avvincente, e lo spazio intimo della navigazione individuale in una mostra all’interno del proprio computer può eliminare la soggezione ed altri ostacoli psicologici comuni tra il pubblico reale.

Il fenomeno è troppo complesso e ancora troppo poco monitorato per trarre conclusioni affrettate.

La speranza è che l’abitudine alla fruizione delle mostre virtuali non appaghi così tanto l’utente del web fino a - mi si perdoni il gioco di parole - sostituire l’insostituibile esperienza della visita al museo, dove è bello avvicinarsi alle opere fino a rischiare di far suonare l’allarme, guardare facce interrogative davanti a didascalie spesso incomprensibili, urtare persone reali e dire “Oh, scusi!”, tagliarsi il dito con la carta del catalogo appena comprato.

MOSTRE - Bruno Munari all’Ara Pacis. Da non perdere

12 novembre 2008

Una grande mostra al Museo dell’Ara Pacis celebra il poliedrico artista milanese nel centenario dalla sua nascita.

Scultore, illustratore, grafico, designer, con la passione per la didattica per l’infanzia e una curiosità smisurata verso tutti i campi della realtà, Munari non è certo un personaggio a cui sia facile dedicare una mostra antologica.

Ogni mostra su Bruno Munari – sottolineano i curatori - è sempre diversa. Non soltanto perché il personaggio è poliedrico ma perché lo spirito del tempo in cui la mostra viene pensata e realizzata è sempre diverso. Peraltro, la ricorrenza del centenario che di norma “storicizza” il personaggio celebrato, in questo caso sottolinea quanto il suo genio creativo sia così partecipe della contemporaneità da non poter essere ancora archiviato nel catalogo della storia.
Anzi, per dirla tutta, il lavoro di Munari, a partire dal suo concetto di metodo fino alla sua applicazione e al risultato oggettivo di opere che trascendono la sua epoca, contiene indicazioni ideali che non sono state ancora pienamente assimilate dalla storia.

Su questi concetti hanno lavorato i curatori per offrire una mostra «emblematica e problematica», suddividendo il corpus ideale di Munari in cinque sezioni tematiche: Dalle due alle tre alle quattro dimensioni, Metodo come metodo, Superare il limite, Annullare il tempo, Scoprire il mondo.

Gli oggetti in mostra sono più di 150, tra sculture, progetti di grafica e di design, bozzetti, studi, manifesti, giochi per bambini, scherzose opere d’arte, molti dei quali il visitatore sentirà familiari perché ormai parte dell’immaginario collettivo.

I contenuti della mostra offrono due livelli di comunicazione, ai bambini che saranno affascinati dalle forme, dai colori e dall’aspetto giocoso delle opere, e agli adulti per i quali la mostra può essere occasione di profonda riflessione. Il percorso espositivo, peraltro, può essere accompagnato dalla vera voce di Bruno Munari che commenta le sue opere.

In occasione della celebrazione di questo “prestigiatore dell’immagine e linguista della fantasia”, parallelamente alla mostra, la città di Roma ospita in forma gratuita una serie di laboratori per bambini e per famiglie, progettati dall’Associazione Bruno Munari e condotti anche da diretti collaboratori del grande artista.

I laboratori, che si terranno al Museo dell’Ara Pacis, al Museo Explora (“Vietato non toccare”, 27 settembre 2008 - 22 febbraio 2009) e alla Casina di Raffaello di Villa Borghese (“Bruno Munari prestigiatore”, 3 ottobre 2008 - 11 gennaio 2009), rappresentano un’opportunità unica per sperimentare l’approccio didattico di Munari, basato su una ricerca tecnico-estetica e psicopedagogia.

Bruno Munari
Museo Ara Pacis, Lungotevere in Augusta
Apertura: da martedì a domenica, ore 9.00-19.00
Ingresso: intero € 8; ridotto € 6
Informazioni: 060608 (tutti i giorni 9.00 - 22.30)
Catalogo Silvana Editoriale
www.arapacis.it

DISQUISIZIONI DI MUSEOLOGIA - Strani linguaggi colonizzano i nostri musei

6 novembre 2008

E’ ora di dire basta alle parole straniere e difficili che imperano nei luoghi della cultura. Che i nostri musei tornino ad essere all’insegna della chiarezza e soprattutto... della lingua italiana!

L’anno scorso, l’allora ministro per i Beni e le Attività Culturali Francesco Rutelli aveva nominato una commissione tecnica per riscrivere il linguaggio dei beni culturali. La commissione - presieduta da linguisti (Luca Serianni), studiosi eminenti (Salvatore Settis), lessicografi e giornalisti, oltre che da esponenti di tutti e quattro i Dipartimenti del ministero - avrebbe dovuto provvedere ad una revisione complessiva del linguaggio e della terminologia non solo degli atti amministrativi del Ministero per i Beni e le Attività Culturali ma anche della vita quotidiana dei musei.


In sostanza, Rutelli invitava, in una lettera circolare inviata dal suo Gabinetto ai direttori generali, a rispettare il linguaggio adoperato dal Codice dei beni culturali e del paesaggio e soprattutto a usare una terminologia che rispondesse il più possibile «a criteri di chiarezza e trasparenza».

Nella circolare si suggeriva anche di evitare l’uso di termini stranieri, in particolare anglicismi, a meno che non si trattasse di neologismi correnti privi di una espressione corrispondente in italiano.

Purtroppo, allo stato attuale, di tale commissione non si è più sentito parlare, né di un documento ufficiale a cui far riferimento. Basta fare un giro, neanche troppo approfondito, tra i musei delle nostre città per accorgersi, già all’ingresso, che i vari “bookshop”, “card” e “tickets” non sono stati sostituiti dai nostrani e demodé “libreria”, “carta” e “biglietti”.

Non possiamo non ricordare che, già nel lontano 1998, una terminologia di strampalata invenzione come “ticketteria” aveva provocato il sarcasmo di Indro Montanelli. Ibrido imbarazzante!

Da allora le “coffee-house” hanno sostituito i “caffè”; i “gadgets” insieme al “merchandising” (prodotti, merci, oggetti) sono venduti in uno “shop” e non in un negozio. La “prenotazione”, desueta perché eccessivamente comprensibile, ha lasciato il posto a “booking” e “reservation”, parole molto più “fashionable” (alla moda)!

Per non parlare poi degli «ipertecnicismi o arcaismi tipici del linguaggio burocratico», che la stessa circolare invitava ad archiviare. Meglio il più consueto “patrimonio culturale”, si diceva, di “giacimenti culturali”. Meglio i vecchi e cari “museo”, “galleria”, “pinacoteca” di “contenitore museale”.

E che dire della parola più abusata di questi tempi: “evento”, che vuol dire tutto e niente (alla lettera “avvenimento passato, concluso”). Non si usa più pubblicizzare mostre, manifestazioni, spettacoli, concerti, fiere. Perché sforzarsi di specificare se ognuno di questi concetti può essere riassunto dalla parola magica? Sono tutti “eventi”.

La commissione nominata non aveva il compito di imporre alcuna sostituzione ma di proporre dei consigli per arginare un fenomeno in crescita in Italia, altrove incomprensibile. Per citare solo due esempi: in Spagna (vedi Museo del Prado) tutto è indicato in spagnolo, di frequente catalano e casigliano, naturalmente con le dovute traduzioni per gli stranieri; in Francia, dove addirittura esiste un organo ministeriale preposto unicamente alla tutela della lingua francese, si assiste a volte all’eccesso opposto (non è infrequente trovare il nostro Michelangelo tradotto in Michel Angel! ).

Se uno dei compiti del ministero è quello di «contribuire a formare e diffondere una cultura nazionale della quale la lingua italiana rappresenta un fondamento imprescindibile», sarebbe giusto che se ne ricordasse anche l’attuale ministro e che continuasse a battere questa strada con più fermezza dei tentativi precedenti.

Difendere la lingua italiana vuol dire difendere la nostra cultura da una stupida massificazione, vuol dire riappropriarci della nostra identità e dimostrare ai milioni di visitatori stranieri che affollano le nostre città, i nostri musei e luoghi d’arte che siamo orgogliosi di essere Italiani. Se non completamente, almeno di quel fiore all’occhiello che è il nostro patrimonio culturale.

MOSTRE - Mario Schifano al GNAM

4 settembre 2008

Ultime settimane per visitare la mostra che la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma dedica a Mario Schifano, grande figura dell’arte italiana e internazionale contemporanea, a dieci anni dalla sua scomparsa.

Con più di centotrenta opere tra dipinti e disegni, la Galleria presenta la prima importante e completa retrospettiva che ricorda questa icona dell’arte, romana di adozione (nasce ad Homs in Libia nel 1934), celebre non solo per le sue opere ma anche per il suo impegno civile e per la sua vita sregolata.

Pur senza entrare nel merito di disquisizioni sulla storia dell’arte contemporanea, è giusto ricordare che Schifano è innalzato oggi a figura cardine nel panorama artistico della capitale ed è considerato fenomeno europeo dalla stessa critica che negli anni ’60 lo stroncava senza appello.

La mostra ripercorre i quarant’anni di produzione artistica di questo “inviato speciale nella realtà”, come lo definisce Achille Bonito Oliva, curatore della mostra, a partire dalle prime opere degli anni ‘50, molte delle quali inedite, grazie ai prestiti di numerosi collezionisti privati.
Decennio dopo decennio, si attraversano così le sale dei suoi famosi quadri monocromi degli anni ’60, in cui il dipinto diventava “schermo”, azzeramento, punto di partenza dove poi avrebbe inserito marchi (Esso, Coca Cola), cifre, lettere, segnali stradali. Poi ancora i cosiddetti “d’après” del 1975, lavori di ripensamento in cui Schifano rifà Magritte, De Chirico, Cezanne e rifà persino se stesso, ripetendo quadri dipinti negli anni passati.

Precursore di una certa avanguardia, e in contatto con artisti internazionali quali Duchamp, Rauschenberg, Jasper Jones ed Andy Warhol, fu tra i primi a sperimentare innesti tra pittura, musica, cinema, video, fotografia (polaroid).

Arte e vita furono inestricabilmente legate nel lavoro di Schifano, che trovava nella quotidianità, nei viaggi e nei ricordi un’inesauribile fonte d’ispirazione: “Io aspetto un segnale per partire. Basta niente, un giornale, un libro, un titolo, un’insegna”.

Per questo motivo il percorso scelto per l’allestimento, quello cronologico, è sicuramente il più corretto. Purtroppo, almeno all’inizio della visita, si fatica un po’ a comprenderlo ma dopo che si capisce il criterio adottato, diventa tutto più chiaro.

L’esposizione è divisa in due parti, su due piani diversi della Galleria, ma anche la comprensione di tale dislocazione è affidata completamente all’intuizione del visitatore, che si trova un po’ disorientato nel districarsi tra le sale della collezione permanente.

Ci chiediamo dove sono le buone vecchie rassicuranti frecce che indicano, o quantomeno consigliano, la direzione del percorso da seguire.
Riguardo all’allestimento, è stato scelto di non accompagnare le opere con alcun testo esplicativo, ad esclusione della biografia all’ingresso della mostra, che dà l’unica chiave di lettura per la comprensione delle opere che si andranno a vedere. Naturalmente questa scelta consente al pubblico di stare a tu per tu con le opere, senza orpelli “disturbanti”. Via alla libera interpretazione personale e, soprattutto, ad una fruizione esclusivamente emozionale della produzione artistica.

Nella pur apprezzabile, ancor più perché rara, possibilità di abbandonarsi al “sentire” le opere, tuttavia si avverte la mancanza di un appoggio alla conoscenza, di un supporto didattico (ideale sarebbe un pieghevole) che accompagni la visita.
La mostra resterà aperta fino al 28 settembre, poi si sposterà a Milano e in Francia, al Museo d'arte moderna di St. Etienne.

GALLERIA NAZIONALE D'ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA
Viale delle Belle Arti, 131 – 00196 Roma
11 giugno - 28 settembre 2008
Apertura: martedì - domenica dalle 8.30 alle 19.30.
Info: 06 32298221
Per le visite guidate: 06 32298451;
Biglietto: € 9 intero – € 7 ridotto
Ingresso per disabili: via Gramsci, 73
Catalogo Electa

STORIA DEI MUSEI - Anacostia, il primo “museo di quartiere”

2 settembre 2008
Il primo “museo di quartiere”, nato in un ghetto afroamericano di Washington, risale agli anni ’60 e tutt’oggi rimane, oltre che un esempio da manuale entrato nella storia mondiale della museologia, un modello a cui ispirarsi. Scopriamone le caratteristiche e le peculiarità che permettono ad un museo di quartiere di definirsi tale.

1966, Aspen. Durante una riunione dei membri dell’American Association of Museums, si conviene che bisogna avvicinare i musei alle persone delle aree a basso reddito attraverso la creazione di mostre rilevanti per stimolare la loro curiosità e la motivazione all’apprendimento.
La Smithsonian Institution, un gigante nel mondo dei musei, decide subito di addentrarsi in un territorio del tutto inesplorato: annuncia così di voler portare un museo in mezzo alla popolazione, e subito riceve richieste da parecchie comunità povere di Washington. Viene scelta la piccola comunità nera di Anacostia, perché lì vi sono rappresentati tutti i mali diffusi nelle moderne città americane.
Si costituisce un comitato consultivo formato da rappresentanti di tutti i settori della comunità: associazioni civiche, gruppi giovanili, associazioni di inquilini, scuole, polizia, gruppi religiosi ecc., i quali durante l’anno incontrano ripetutamente lo staff dello Smithsonian.
Settembre 1967. Nato come estensione della celeberrima istituzione, in un cinema abbandonato a un paio di chilometri dallo Smithsonian, viene inaugurato l’Anacostia Neighbourhood Museum. Suo direttore è nominato John R. Kinard, che lo rimarrà fino alla sua morte nel 1989.
Naturalmente persone che non hanno un posto decente in cui vivere, o prive di qualsiasi formazione professionale, difficilmente possono interessarsi alla civiltà greco-romana o all’arte moderna, costrette come sono a procurare alla famiglia un tetto, abiti e cibo. Ed è proprio da qui, dalle condizioni in cui le persone si trovano, che si deve partire.
La storia di Anacostia è fatta di crimini, droga, disoccupazione, catapecchie, ratti, mancanza di servizi igienici. Il museo di questo quartiere non può permettersi di appendere quadri ai muri. Non si esporranno oggetti storici privi di rapporto con le questioni sociali, né oggetti con cui le persone non possano identificarsi.
Il museo comincia ad affrontare il suo compito raccogliendo e analizzando dati, impostando problemi e cercando soluzioni. Così l’idea della prima mostra nasce discutendo con i bambini e gli adolescenti della zona e comprendendo che il problema più urgente che affligge la città e la campagna sono i ratti. Come era stato affrontato il problema in passato? Ci sono mai state società senza ratti o senza malattie da loro provocate? Quali eventuali vantaggi possono portare i roditori? Quali le conseguenze se si trascura il problema?
Nella mostra itinerante “The rat: man’s invited affliction”, che affianca l’altra in sede “This thing called jazz”, al posto delle vetrine ci sono gabbie piene di topi allo scopo di far osservare alla gente il loro comportamento e le eventuali conseguenze di gettare al posto sbagliato un contenitore di cibo. Seguono mostre sull’AIDS, sulla dieta dei bambini e su tante altre tematiche cruciali per la comunità locale.
Istituzione priva di una collezione permanente, il museo di quartiere (neighbourhood museum, musée de voisinage) nasce quindi con lo scopo di offrire un servizio alla popolazione che vive nella zona in cui esso ha sede. In qualità di organismo indipendente, spetta al museo di stabilire le priorità riguardo alla gestione del personale, alle esposizioni, ai programmi educativi e ogni altra attività, ma esso coinvolge sempre gli abitanti del quartiere nel comitato consultivo.
Centro di documentazione della memoria collettiva del quartiere, in cui si raccolgono per esempio fotografie e testimonianze orali degli abitanti, un museo tale si dà il compito di analizzare la comunità e la sua storia, indagandone la provenienza, la presenza di punti di riferimento, le tradizioni, le persone, i punti deboli in campo economico, sociale, politico, educativo e i possibili miglioramenti.
L’attenzione è focalizzata sui problemi, le speranze, le aspirazioni, i timori, le difficoltà, i sogni della comunità. La comunità, a sua volta, comincia a scoprire attraverso il museo la propria identità e a diventarne orgogliosa. Il senso di appartenenza si consolida. La popolazione parla e discute, il museo è l’orecchio in ascolto.
Il museo offre alla gente del posto una sede per incontrarsi e parlare, presta attenzione ai problemi urgenti e incoraggia le persone a risolverli, sollecita interessi, dalla lotta contro l’alcolismo all’archeologia locale alla pianificazione urbana. Diventa luogo vivo e vissuto, dove si balla, si canta, si lavora, si dibattono questioni sociali, si studia per creare una nuova identità, quella afroamericana nel caso di Anacostia, e dove si affrontano problemi pratici di museologia e museografia.
I fondatori dell’Anacostia Neighbourhood Museum hanno assicurato alla loro comunità un posto nella storia umana. E questa esperienza non è stata fatta solo per la gente di Anacostia ma per la gente di tutto il mondo. Questo museo, oggi rinominato Anacostia Community Museum, è opera di una comunità povera ed esempio per tante grandi istituzioni. Il suo sforzo pionieristico è stato uno dei passi avanti più significativi che siano avvenuti nel mondo dei musei e la sua missione continua ad essere mantenuta da oltre 40 anni.
Anacostia è la prova evidente che un museo non serve solo ad imparare o peggio, a contemplare, la storia dell’arte. Non sarebbe forse il caso di seguirne l’esempio per cercare di affrontare in modo alternativo problemi attualissimi, come la sicurezza, la disoccupazione, i rifiuti o la delinquenza giovanile?


Bibliografia:
Intermediari tra il museo e la comunità, John Kinard 1972
Il ruolo del museo d’arte e del museo di scienze umane e sociali, Georges Henri Rivière 1973

DIARIO - Signorina, lei lo capisce Schifano?

1 agosto 2008

Al museo possono accadere cose inaspettate. Ecco il racconto di un incontro extra-ordinario, che ha trasformato una normale visita in una esperienza, di quelle che difficilmente si dimenticano e che, mi fanno amare, se possibile, ancor di più questo luogo.

Roma, giornata caldissima di luglio. Decido che questo pomeriggio è il momento giusto per andare a vedere finalmente la retrospettiva sull’artista contemporaneo Mario Schifano, visita rimandata da troppo tempo. Prendo l’autobus e raggiungo la Galleria Nazionale d’Arte Moderna.
Percorro le sale, mi concentro sulle opere, mi rilasso. Ho appena terminato il mio “Schifano-tour”, mi aggiro tra i Burri, i Fontana e i Capogrossi della collezione permanente, quando mi sento chiamare alle spalle da una voce decisa e spontanea: “Signorina, lei lo capisce Schifano?”.

In un momento mi trovo seduta sul confortevole divanetto della sala deserta, a chiacchierare con una affabile e distinta signora di età avanzata. Presto scopro che si tratta di una persona totalmente assorbita, quasi logorata, da tre anni a questa parte, dalla durissima “occupazione” – come lei stessa la definisce – della ricerca di una casa. Tanto da recarsi in un museo non per ammirarne le opere ma per trovare la giusta concentrazione per leggere gli annunci.

Una parola tira l’altra, e la butto lì: “Non è che potrei farle qualche domanda per la rivista su cui scrivo?”. La Signora accetta di buon grado. Cominciamo.

Perché frequenta un museo?
Provo di bello la grande pace, apprezzo la temperatura ideale, apprezzo il silenzio. Qui posso concentrarmi e leggere.

Cosa la affascina del museo? C’è qualcosa che la infastidisce?
Non mi infastidisce niente. Ammiro il silenzio con cui le persone contemplano le opere, penso che con questo silenzio qualcuno le capisca. Non si può stare zitti a guardare per tanto tempo senza capire qualcosa, sarebbe da pazzi.

È venuta altre volte in questa Galleria?
Ci sono stata tre volte, è ad una fermata di autobus da casa; di solito vado alla Biblioteca Statale ma alle 15.00 chiudono, quindi vengo qui e continuo a leggere annunci.

Dunque il museo per lei non è un luogo di distrazione, in cui poter evadere dalle sue preoccupazioni...
Il museo per me adesso è unicamente luogo di pace dove cerco di risolvere i miei problemi quotidiani, mentre prima era un luogo di grande ricchezza, di cultura. Ci andavo spesso con la mia più grande amica, che ora non c’è più, giravamo tantissimo ed in tutti quei luoghi provavo un gran piacere proprio perché introitavo ricchezza.

E adesso non prova più il desiderio di visitare posti nuovi?
Le questioni che ho in ballo al momento mi tolgono la voglia di girare.

Quindi, se ho ben capito, quando viene al museo, non fa neanche un giro per le sale. Si ferma qui e legge gli annunci?
Le opere mi distoglierebbero soltanto dalla mia occupazione. Solo con Cascella, il mio pittore preferito, sarebbe diverso. Se qui ci fosse esposto Cascella, avrei cambiato posto, perché non mi avrebbe fatto trovare la concentrazione.

Al termine di questa breve intervista, la inusuale visitatrice ha continuato a ripetermi: “Mi dispiace, non le ho dato molto. E poi non sta bene dire che si va al museo per leggere in pace anziché per vedere le opere...”.

E invece mi ha dato tantissimo, cara Signora. In tanti anni frequentazione dei musei e di studio del loro pubblico, non mi era mai capitato un caso simile. Lei mi ha appena dato la conferma che il museo è un luogo accogliente, aperto alle più svariate e sorprendenti esigenze degli esseri umani. E in più, dopo le due ore passate insieme, la conferma che il museo non è necessariamente luogo di solitaria contemplazione, ma può essere occasione di aggregazione e scambio.

Io oggi al museo ci sono andata per togliermi di dosso l’inquietudine, lo stress, la maleducazione della gente e le brutture che mi portavo appresso da giorni. Per trovare la mia oasi di pace nel mio “territorio” preferito. E qui ho trovato molto più di quanto desiderassi.

Abbiamo passato un intero pomeriggio a conversare senza accorgerci del tempo che passava, fino a quando i custodi sono venuti ad avvertirci della imminente chiusura della Galleria.

Cara Signora, la ringrazio per il regalo che mi ha fatto. Dal canto mio, le auguro di trovare presto casa e, con essa, quella serenità che le consentirà di tornare in un museo e ritrovare il piacere di ammirare le opere del suo amato Cascella.

PERSONAGGI - Omaggio a Munari

25 luglio 2008
A dieci anni dalla sua scomparsa, rendiamo omaggio a Bruno Munari, uno dei massimi protagonisti dell'arte, del design e della grafica del Novecento italiano, ma anche grande ricercatore sul tema dell'infanzia e della creatività, e inventore del metodo “Gioco con l’arte”.

Nato a Milano nel 1907 e morto nel 1998, tanto creativo e metodico quanto spiritoso, Munari è stato una figura vulcanica, quasi “leonardesca” nel suo sfuggire a qualsiasi categorizzazione. Sempre all’avanguardia, fin dalla sua partecipazione, da giovanissimo, al movimento futurista, si è poi affiancato ed ha approfondito ogni ramo dell’arte, della tecnica, della comunicazione. Ha così esplorato i terreni della pittura, della scultura, del design, dell’industria, della scrittura, del cinema e non solo.
Le “macchine inutili” (oggetti appesi in movimento) del 1933, la scimmia giocattolo Zizi del ’53, la lampada Falkland del ’64, insieme a tavoli, poltrone, posacenere e quant’altro, sono solo alcune delle sue celebri creazioni che hanno fatto parte della quotidianità degli Italiani dagli anni ’30 ad oggi.
Nel 1977, a coronamento dell'interesse costante verso il mondo dell'infanzia, Bruno Munari creò il primo laboratorio per bambini “Giocare con l’Arte” in uno dei più prestigiosi musei nazionali italiani, la Pinacoteca di Brera a Milano. Munari ricevette l’incarico di progettare uno spazio per i bambini all’interno del museo da Franco Russoli, allora Soprintendente di Brera, che voleva trasformare il museo da "torre eburnea e luogo sacro di pochi eletti" in un "organismo vivo", capace di essere "strumento di comunicazione di massa" e "servizio sociale". Il laboratorio, che allora durò tre mesi, fu un evento storico per la città e da allora suscitò un enorme interesse, sia in Italia sia all'estero.
Vicino ai metodi pedagogici della Montessori e al pensiero di Piaget, nei suoi laboratori Munari si fece propugnatore di una metodologia didattica basata sul “fare per capire”, sul “dire come, e non cosa, fare”. Contro ogni imposizione, i bambini erano piuttosto incoraggiati alla sperimentazione, al cercare e scoprire da soli, in modo autonomo: "Non è importante l'oggetto finito, ma il percorso che il bambino fa per arrivare allo stesso".
L'arte visiva, così, non era raccontata più a parole, ma sperimentata: le parole si dimenticano, l'esperienza no. "Se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se faccio capisco" soleva ripetere l'artista, citando un antico proverbio cinese.
Sperimentando tecniche e regole ricavate dalle opere d'arte, i bambini scoprivano le qualità diverse dei materiali e degli strumenti. I bambini imparavano giocando! E soprattutto, a diventare indipendenti, senza l’interferenza degli adulti, e a risolvere i problemi da soli (“Aiutami a fare da me” era anche il motto di Maria Montessori).
Ogni laboratorio quindi, secondo questa concezione, diventa un luogo di creatività e conoscenza, scoperta e autoapprendimento attraverso il gioco, luogo privilegiato dove si fa “ginnastica mentale” e si costruisce il sapere. Spazio dove sviluppare la capacità di osservare con gli occhi e con le mani, per imparare a guardare la realtà con tutti i sensi fin dall'infanzia.
Nei laboratori si osserva che cosa fanno gli altri, si fa pace con la paura di sbagliare e di non essere capaci, si scopre l’inatteso desiderio di scambiarsi esperienze.
Il metodo originario, ripreso e continuato per più di 30 anni, nei rispettivi laboratori in Italia e all’estero, da alcune collaboratrici dirette dell’artista-pedagogo – che hanno poi contribuito alla costituzione dell’“Associazione Bruno Munari” – è divenuto oggetto di un’accurata analisi critica al fine di consolidarne i fondamenti epistemologici e pedagogici. Il frutto di questo lungo lavoro è ora protetto dall’appellativo legalmente registrato “Metodo Bruno Munari®”, e lo scopo dell’Associazione è oggi quello di promuovere e sviluppare il Metodo nelle scuole, nei musei, nelle biblioteche, ovunque si ritenga importante lo sviluppo del pensiero progettuale creativo.
Per concludere, citiamo una significativa frase di Munari, che ogni adulto dovrebbe tenere bene in mente quando “pretende” di insegnare qualcosa ai bambini: "Giocare è una cosa seria! I bambini di oggi sono gli adulti di domani, aiutiamoli a crescere liberi da stereotipi, aiutiamoli a sviluppare tutti i sensi, aiutiamoli a diventare più sensibili. Un bambino creativo è un bambino felice!".

MOSTRE - Mondo Babonzo. Il Museo delle creature immaginarie

15 luglio 2008
Alla scoperta di una mostra in cui apprendimento, divertimento, ecologia e obiettivi umanitari convivono allegramente.

Si è da poco conclusa, nella Galleria d’Arte Moderna di Palermo, una mostra assai particolare, dal titolo Mondo Babonzo - Il museo delle creature immaginarie, a cura di Altan, Stefano Benni, Pietro Perotti e Amref.
A rigor di termini, più che di museo si tratta di una mostra itinerante che, dopo il debutto a febbraio 2007 a Milano, ha toccato numerose città italiane, riscuotendo sempre maggiore successo.
La mostra ha preso vita dal miscuglio creativo tra la scrittura immaginaria di Benni, narratore e romanziere, i disegni dell’arguto vignettista Altan e il genio artigianale di Perotti, scultore e scenografo.
Ne sono venute fuori 52 sculture fantastiche in gommapiuma, 3 grandi sculture realizzate da Riccardo Sivelli su mandato immaginifico di Altan, Benni e Perotti (il Checosésauro, l’Animale Rubinetto e il Baobab), 10 tavole originali di Altan che raffigurano animali immaginari estinti, e sempre di Altan e Benni, dieci originali teorie sull’estinzione dei dinosauri.
Lo straordinario mondo delle Creature Immaginarie, o Mondo Babonzo, nasce dalle ricerche di due insigni scienziati: il Professor Lupoff (Lupo è il soprannome di Benni) e il Professor Altansky. I due si ritrovano per caso su un'isola, dove incontrano anche lo scultore Pietroperù (Perotti)... Dopo varie vicissitudini i tre riescono a catturare e studiare una serie di incredibili creature.
Una di queste è Babonzo (Babonzus bonzus), “animale dotato di due paia di piedi orientati nelle opposte direzioni, per cui può camminare solo lateralmente. La coda si srotola ed emette un suono di trombetta ogni volta che il babonzo respira. [...] La sua particolarità consiste nel fatto che, col passare degli anni, rimpicciolisce, invece di crescere. Il piccolo babonzo pesa alla nascita più di duecento chili e la madre ha bisogno di una scala per poter covare l’uovo. Un babonzo di cento anni è grande come un ditale e non muore: dopo un po’, non lo trovano più”.
A parte il divertimento assicurato, l’obiettivo della mostra è introdurre, attraverso l’immaginazione, l’ironia e la leggerezza, temi importanti come la sostenibilità ambientale, l’accesso alle risorse idriche, il divario tra il nord e il sud del mondo.
Ecco perché l’Amref - organizzazione sanitaria privata, senza fini di lucro, con base in Africa e presente in diciassette Paesi del mondo, tra cui l’Italia – ha deciso di promuovere il progetto insieme al Green Belt Movement fondato dal premio Nobel Wangari Mattai.
All’interno della mostra, un percorso espositivo dal titolo L’Africa che immaginiamo è curato dalla stessa Amref ed invita il pubblico ad usare l’immaginazione per vedere altri mondi possibili: un’Africa diversa da quella che siamo abituati a vedere attraverso i mezzi di informazione, un’Africa positiva e fuori dagli stereotipi, tra fantasia e conoscenza di ricchezze di cui poco o nulla si sa.
Un breve percorso storico racconta il “continente nero” dall’antichità ai giorni d’oggi: l’Africa di Erodoto, dei giganti a tre teste, l’Africa dell’hic sunt leones; e poi, il rapporto con le comunità (schiavitù, colonialismo) e la possibilità di immaginare e realizzare soluzioni alternative per garantire a questo continente uno sviluppo autonomo.

L’intento della mostra è dimostrare ai suoi visitatori che proprio l’immaginazione, se è veramente libera, non può non accompagnarsi alla tolleranza, al rispetto dell’ambiente, alla curiosità e all’empatia per popoli lontani.
Per tutta la durata della mostra sono previste numerose attività didattiche per grandi e piccini finalizzati alla creazione di animali immaginari e per conoscere e approfondire insieme la realtà africana.
Di Mondo Babonzo esiste anche un libro illustrato, i cui fondi raccolti, insieme a quelli della mostra, andranno a sostenere il progetto per il miglioramento delle condizioni ambientali e sanitarie delle comunità Masai di Namanga e Mashuri, duramente colpite negli ultimi due anni dalla siccità.



Mondo Babonzo. Il Museo delle creature immaginarie
Galleria d’Arte Moderna – Complesso monumentale di S. Anna
22 aprile-29 giugno 2008-07-01
Libro Mondo Babonzo, Gallucci Editore, pagg. 182, € 13


TRADIZIONI - Gli amici di Pasquino...la congrega degli arguti

8 giugno 2008

Questa settimana andremo a scoprire cosa si nasconde dietro "agli amici di Pasquino," statue la cui espressività va molto oltre il semplice valore estetico.

Pasquino non era l’unica “statua parlante” di Roma, altre sculture di questo tipo gli tenevano compagnia in città e oggi godono del suo stesso status giuridico. Tutte insieme formavano la cosiddetta “congrega degli arguti”. In questa seconda parte dell’articolo ne faremo la conoscenza, a spasso per questo museo all’aperto che è Roma, la quale ci restituisce come per magia pensieri, lamentele, proteste e prese in giro dei suoi cittadini attraverso i secoli.

La più nota era Marforio, figura barbuta distesa su un fianco, personificazione di un fiume (Tevere?) o forse del dio Nettuno, che decora il cortile di Palazzo Nuovo dei Musei Capitolini. Fu rinvenuta presso il Foro di Marte e da qui probabilmente deriverebbe il suo nome: Martis forum. Marforio era considerato la “spalla” di Pasquino, poiché in alcune delle satire le due statue dialogavano fra loro: una poneva domande riguardo ai problemi sociali, alla politica ecc., e l'altra dava risposte argute.

Un'altra statua è conosciuta come Madama Lucrezia e si trova in un angolo di Palazzetto Venezia in piazza San Marco, adiacente a piazza Venezia. Questo enorme busto marmoreo, alto circa 3 metri, proviene da un tempio dedicato a Iside e raffigura una sacerdotessa di questo culto se non la stessa dea. Il soprannome deriva da una nobile dama del XV secolo, che si era innamorata del re di Napoli, il quale però era già sposato; Lucrezia si era recata a Roma per cercare di ottenere dal papa la concessione del divorzio per il sovrano, ma il tentativo fallì. L'anno seguente il re morì e l'ostilità del suo successore costrinse la dama a fuggire da Napoli per tornare a Roma, dove abitò appunto presso la suddetta piazza.


L'Abate Luigi è una statua di età tardo-romana, posizionata al lato della chiesa di S. Andrea della Valle, in Piazza Vidoni. Raffigura un uomo con una toga (un oratore? un console?) e il soprannome fu probabilmente ispirato dal deforme sacrestano della vicina chiesa del Sudario, il quale - secondo la tradizione popolare - rassomigliava molto alla figura scolpita.






Il Babuino (cioè babbuino) è una figura distesa di Sileno, divinità agreste, davanti alla chiesa di S. Attanasio dei Greci, nella centrale Via del Babuino. Funge da elemento decorativo di una fontana usata una volta per abbeverare i cavalli, sul cui bordo il vecchio personaggio se ne sta disteso sin dal Rinascimento. La statua, ghignante e deforme, come ogni ritratto di Sileno voleva, fu battezzata dai Romani “er babuino” perché la giudicarono così repellente da paragonarla ad una scimmia.

Tra via Alessandro Specchi e via Lata, la Fontana del Facchino, alimentata dall'Acqua Vergine, dapprima fu posta sulla facciata del palazzo De Carolis e poi trasferita lungo il suo lato destro, forse per proteggerla dagli urti delle carrozze.




Nonostante una relazione del Vanvitelli attribuisse l'opera a Michelangelo, la fontana fu realizzata da Jacopo Del Conte intorno al 1580 per incarico della Corporazione degli Acquaioli. Vi è scolpito un busto d'uomo dal volto sfigurato col berretto, le maniche rimboccate e un caratello fra le mani da cui versa acqua. La fantasia popolare gli attribuì parecchie identità, ma si tratta semplicemente di un “acquarolo”, impropriamente soprannominato “facchino”, uno di coloro cioè che di notte riempivano botticelle con l'acqua del Tevere o della Fontana di Trevi e di giorno la vendevano per strada o nella case.

Su tutte queste statue, come su quella di Pasquino, venivano appesi i consueti fogli satireggianti contro papi e potenti, di cui abbiamo scritto nel precedente articolo. Divertente, ma soprattutto antropologicamente interessante, è notare come il popolo abbia sempre attribuito le più disparate identità, caratteristiche e persino una personalità ad ognuna di queste sculture inanimate.

Goliardia? Culto animistico al limite dell’idolatria? Spontaneo istinto al gioco? O semplice necessità di affidare ad entità non perseguibili dalla legge la voce tagliente del popolo?
Quando si dice che alle statue manca la parola…

TRADIZIONI - Pasquino, la voce del popolo romano

24 giugno 2008

Pasquino è la più celebre “statua parlante” di Roma, voce dello sberleffo e della satira, crudele e spietatissimo, pronto a mettere alla berlina potenti e porporati, divenuto figura caratteristica della città fra il XVI ed il XIX secolo.

Nel 1501, durante gli scavi per la pavimentazione stradale e la ristrutturazione del Palazzo Orsini (oggi Palazzo Braschi) fu ritrovato un frammento di una statua maschile in stile ellenistico, risalente probabilmente al III sec. a.C., danneggiato nel volto e mutilato degli arti. Da allora, la scultura venne posizionata all’angolo del palazzo lì dove si trova ancora oggi, in quella che un tempo era detta Piazza di Parione ed oggi Piazza di Pasquino, appena dietro la ben nota Piazza Navona.
All'antico torso greco, copia romana in marmo di un'opera originale in bronzo, forse dello scultore Antigonos di Pergamo, il nome Pasquino venne dato casualmente e fin dal ‘500 invalse l'uso d'attaccarvi biglietti satirici e provocatori.
Ai piedi della statua, ma più spesso al collo, si appendevano infatti nella notte fogli contenenti satire in versi, dirette a pungere i personaggi pubblici più importanti, rigorosamente in forma anonima. Erano le cosiddette “pasquinate”, dalle quali emergeva, non senza un certo spirito di sfida, il malumore popolare nei confronti del potere e l'avversione alla corruzione e all'arroganza dei suoi rappresentanti.
Nonostante fosse questa l’origine delle pasquinate, di lì a poco la fantasia popolare diede vita ad una serie di leggende intorno al personaggio di Pasquino, tra le quali si impose quella di un sarto del quartiere dalla lingua tagliente e puntuta come le sue forbici e i suoi aghi che, a lavorare le vesti papali, veniva a conoscenza delle sozzure della corte e le rendeva note ai concittadini. Altre leggende lo volevano barbiere, fabbro o maestro di scuola.
Frutto della necessità popolare di dare sfogo al risentimento contro i soprusi del potere, Pasquino divenne in breve tempo fonte di irritazione e di preoccupazione per i potenti presi di mira dalle pasquinate, primi fra tutti i papi.
Diversi furono quindi i loro tentativi di arginare il problema: Benedetto XIII emanò un editto che garantiva la pena di morte, la confisca e l'infamia a chi si fosse reso colpevole di pasquinate. Fu persino dato ordine di gettare il torso nel Tevere. La statua fu salvata grazie alla lungimiranza degli smaliziati cardinali della curia che intravidero il pericolo di un simile attacco alla naturale inclinazione alla satira del popolino romano.
Una delle pasquinate dell’epoca è rimasta famosa fino ai nostri giorni: Quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini (Quello che non hanno fatto i barbari, hanno fatto i Barberini). La frase era dedicata a Urbano VIII Barberini (1623-1644), il papa che permise di usare le decorazioni in bronzo del Pantheon per realizzare il Baldacchino di San Pietro in Vaticano.
Tuttavia, col passare del tempo, anche la produzione di pasquinate si estinse naturalmente. Con la breccia di Porta Pia e la fine del potere temporale, la statua tacque, priva del suo antico bersaglio. I fogli appesi tornarono solo saltuariamente.
Durante il fascismo, in occasione dei preparativi per la visita di Hitler a Roma, Pasquino riemerse dal lunghissimo silenzio per notare la vuota pomposità degli allestimenti scenografici, che avevano messo la città sottosopra per settimane: “Povera Roma mia de travertino! T'hanno vestita tutta de cartone pè fatte rimirà da 'n'imbianchino... ”
Oggi Pasquino, così come altre statue simili, gode di un particolare status giuridico, la cosiddetta dicatio ad patriam. Questa consiste nella messa a disposizione di un bene per il soddisfacimento di un’esigenza non contingente della collettività, in poche parole tale bene viene asservito all’uso pubblico, nel luogo in cui esso si trova.
Questo riconoscimento non avviene di frequente, dal momento che, affinché sorga una servitù di uso pubblico su un’area privata è necessario che l’uso dell’area avvenga da tempi imprecisati ad opera di una collettività indeterminata di individui, considerati non uti singuli, bensì uti cives (come cittadini) ed occorre, altresì, che tale uso soddisfi un interesse pubblico.
Dal 1500 fino ad oggi, insomma, Pasquino è un bene di tutti, della comunità. Un modo di fruire l’arte – perché di questo si trattava quando la statua venne realizzata – collettivo, pubblico, democratico. Pasquino continua ad essere preservato e rispettato in uno spazio aperto, per la strada, fuori dai palazzi nobiliari, fuori dai musei. Nessuno ha mai osato sfregiare o attaccare la statua, amica della gente comune.
Da secoli fa parte della storia, della tradizione e dunque della cultura del popolo di Roma. Così tanto che ancora ai nostri giorni è traboccante di tirate satiriche dirette a Berlusconi (il più gettonato), Cuffaro & Co., per continuare a soddisfare l’esigenza mai sopita di dare libero sfogo contro i “papi” del momento.

DIARIO - Aquiloni su Roma

30 maggio 2008

Storia di un bel progetto e di tanti bambini felici.... rimasti con un pugno di mosche, anzi di aquiloni, in mano.


Quest’anno ho avuto la fortuna di collaborare ad uno splendido progetto dedicato alle scuole primarie, dal nome “Aquiloni su Roma” .
Il progetto è stato ideato dall’Associazione Culturale “Lune d’Oriente” insieme al Servizio Didattico del Museo Nazionale di Arte Orientale di Roma, e promosso dal Comune di Roma nell'ambito delle attività di educazione interculturale e di educazione alla pace previste per l'anno scolastico 2007-2008.
Il progetto si è ispirato al romanzo “Il cacciatore di aquiloni” di Khaled Hosseini, che recentemente ha avuto un grandissimo successo internazionale, e all’Afghanistan, che proprio grazie a questo libro ha attirato l’attenzione di molti.
L’attività è stata articolata in varie fasi. Prima di tutto, gli insegnanti – tutti sensibilizzati al progetto in una riunione preliminare in Museo a loro destinata – hanno fatto leggere ai loro alunni una riduzione del romanzo, epurata delle parti più “dure” e concentrata piuttosto su usi, costumi e vita quotidiana dell’Afghanistan.
Nella seconda fase, l’incontro con gli alunni, è avvenuto a scuola. Qui gli operatori didattici del Museo, due per ogni classe, hanno insegnato ai bambini, divisi in gruppi, a costruire un aquilone. Questa fase è stata occasione per ribadire l’importanza del gioco degli aquiloni per i bambini afgani, a cui è stato vietato farli volare nei lunghi anni della guerra.
Inoltre, il lavoro di gruppo è servito da una parte per stimolare alla socializzazione ed alla cooperazione fra gli alunni, spesso portati ad agire individualmente, e dall’altra a incoraggiare la creatività e le abilità individuali, attraverso l’uso di materiali poveri o di riciclo.
Il secondo incontro con gli alunni è avvenuto in Museo, dove essi hanno avuto l’opportunità di conoscere da vicino la collezione archeologica afgana e di approfondire alcuni aspetti della civiltà islamica, come la preghiera, l’arte, la scrittura.
I bambini hanno poi assistito ad una proiezione di immagini relative all’Afghanistan (in parte messe a disposizione dal Contingente Italiano a Kabul) prima e dopo la guerra. E proprio le foto precedenti alla distruzione bellica hanno colpito bambini e insegnanti, abituati a vedere nei telegiornali immagini di un Paese arido come il deserto, e sorpresi di scoprire una terra ricca di laghi e cascate, rigogliosa di vegetazione, piena di monumenti e bei palazzi.
Le immagini sono state pensate come una sorta di illustrazioni de “Il cacciatore di aquiloni” , così gli alunni hanno potuto vedere coi propri occhi quanto avevano già letto nel romanzo: le varie etnie afgane, i costumi tradizionali, i cibi, i mezzi di trasporto, gli artigiani al lavoro, i bambini a scuola, la gente al mercato.
L’incontro conclusivo avrebbe dovuto essere di quelli che difficilmente un bambino dimentica nella sua vita. Le centotrentuno classi che hanno aderito al progetto, quindi circa 3000 bambini, dovevano incontrarsi al Circo Massimo per far volare tutti insieme gli aquiloni costruiti e “colorare il cielo di Roma”, come ci è piaciuto ripetere tante volte durante i laboratori, come un segno forte di pace.
Perché scrivo al condizionale? Perché ci sono state le elezioni. Perché il progetto è stato bloccato prima della sua conclusione.
Questa esperienza, fino a quando è potuta andare avanti, è stata di quelle che si definiscono con la “E” maiuscola. Tutti abbiamo imparato tante cose. Abbiamo visto bambini commossi dalla lettura del libro, e bambini che si sono immedesimati nei due piccoli protagonisti, Amir e Hassan, fino ad arrabbiarsi perché la mamma del primo ha abbandonato la famiglia quando il figlio era piccolo.
Abbiamo sentito insegnanti promettere che si sarebbero impegnate a far costruire agli alunni un aquilone a settimana, per giungere al giorno del volo ognuno col suo. Abbiamo visto cartelloni e disegni realizzati dai ragazzi, che ora sull’Afghanistan sanno molto più dei loro genitori. Abbiamo letto, qualche volta con occhi lucidi, i loro pensieri sul romanzo e sull’esperienza fatta nel corso dell’anno.
Abbiamo percepito la curiosità dei bambini verso l’alterità, siamo stati travolti da domande di ogni tipo. Abbiamo assistito, purtroppo anche a fianco di episodi di scarsa integrazione sociale, a bambini provenienti da Paesi lontani spiegare alla classe che gli aquiloni fanno parte pure della tradizione della loro terra, e ne abbiamo appreso i nomi nelle diverse lingue e i differenti modi di costruirli.
È raro lavorare ad un progetto così bello, potente, ben organizzato, curato in ogni suo dettaglio. Mettere in moto un macchinario così grande è stato faticoso, e il merito va alle professionalità delle straordinarie giovani archeologhe e orientaliste dell’Associazione “Lune d’Oriente” e al puntiglioso “pugno di ferro” della Dott.ssa Manna, responsabile delle attività didattiche del Museo.
Purtroppo le giunte comunali cambiano, le autorità si susseguono. I vecchi progetti, non importa se validi o no, vengono bloccati se non annullati. È la prassi. Gli aquiloni rimarranno negli armadi delle scuole. Peccato.

MUSEI - Explora: il museo dei bambini

12 maggio 2008
Abbiamo visitato per voi una tipologia di museo ancora poco frequente in Italia, in quanto destinato esclusivamente ad un pubblico speciale: i bambini. Vediamone insieme i punti di forza e quelli a sfavore.

Il Museo Explora è dedicato ai bambini dai 0 ai 12 anni e ha sede nell'area dell’ex-deposito tranviario dell’Atac, l’azienda di trasporto pubblico di Roma. Oggi, dotato di riscaldamento a pannelli solari e circondato da giardini, costituisce un esempio di archeologia industriale riqualificata a scopi culturali.
Il percorso del Museo è ideato come una piccola città, nella quale i bambini possono conoscere la dimensione quotidiana dei grandi, ed è articolato in quattro sezioni tematiche dove tutto può essere osservato, toccato, sperimentato.
La prima sezione, “IO”, è dedicata alla scoperta di alcuni aspetti del corpo umano. Qui il bambino può rientrare virtualmente nella pancia della mamma, studiare una bocca gigante, visitare un finto ospedale e lo studio di un dietologo. Nello stesso settore vengono anche affrontati lo sport a la sicurezza.
La seconda, “L’AMBIENTE”, è costituita da una casa ecologica, in quanto alimentata da un impianto fotovoltaico, e in cui gli spazi sono trasparenti per far filtrare la luce, fonte di energia e vita. In questa sezione si insegna ai bimbi a rispettare l’ambiente riutilizzando i rifiuti che si producono, evitando gli sprechi, e imparando a realizzare oggetti di carta riciclata.
La terza è dedicata a “LA SOCIETÀ”, e qui il bambino può cimentarsi con il supermercato, il benzinaio, con il camion dei pompieri, con la banca, mentre nell’ultima parte, “LA COMUNICAZIONE”, ci si approccia ai media: si può fare il giornalista, il presentatore TV in uno studio televisivo, ma anche il giornalaio e il postino
Explora non si presenta dunque come un museo canonico con collezioni, archivi, allarmi che impediscono di avvicinarsi agli oggetti, ma – almeno nelle intenzioni dei suoi progettisti e curatori – si dovrebbe ispirare ai modelli stranieri di “Children’s Museums”, nati negli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento (il primo fu fondato a Brooklyn nel 1899) per soddisfare il diritto dei bambini alla conoscenza ed al gioco sancito anche dalla carta dei diritti dell’ONU.
Nei “Children’s Museums” il gioco viene utilizzato come molla per l’apprendimento, insieme alla stimolazione della curiosità e alla interazione attiva del giovane pubblico con le cose.
Il problema principale del Museo Explora è che i contenuti di ciascuna sezione non sono facilmente intuibili né resi comprensibili dal bambino, se questo non è accompagnato da un operatore in carne e ossa o da un genitore volenteroso che spieghi quelle realtà.
Giovani operatori (quasi tutti volontari e stagisti) sono effettivamente presenti al museo, ma per numero non riescono a coprire tutte le sezioni. Per questo è frequente assistere a bimbi che si aggirano disorientati tra le zone della banca o della posta, attratti piuttosto da un luogo più “vicino” a loro, come può essere il supermercato.
Questo accade anche perché, non di rado, i genitori o gli adulti che accompagnano i bambini scambiano un luogo simile per una grande ludoteca o, peggio, per un utile “parcheggio” dei piccoli, ignorando invece il fatto che un esperienza ludica ed educativa fatta insieme può rappresentare un esperienza importante per entrambi.
Oltre a ciò, ad Explora si aggiunge la poca chiarezza del percorso: le quattro sezioni non sono ben separate e i vari spazi e postazioni sono poco diversificati visivamente gli uni dagli altri. I colori non sembrano usati per distinguere ma per creare confusione, alla quale contribuisce un intreccio di tubi, in parte facenti parte della struttura e in parte oggetti “didattici” per la sperimentazione dell’acustica.

Destano poi qualche perplessità spigoli e arredi pericolosi in un luogo riservato ad una fascia di età così bassa.
Sono sicuramente apprezzabili le tante iniziative che Explora promuove costantemente, dalle piccole mostre ai laboratori, dalle letture animate alle “notti al museo” che concorrono a rendere questo un luogo vivo, quale deve essere. Alcune delle attività promosse, tuttavia, come le feste di compleanno, possono rischiare di agevolare l’identificazione di questo museo con un parcogiochi o, peggio, con qualcosa di simile ad un Mc Donald’s. Purtroppo, il confine tra luoghi per il tempo libero e quelli che offrono insieme apprendimento ed intrattenimento è spesso labile.
La strada per raggiungere gli esempi dei Children’s Museums d’oltreoceano è ancora lunga.



Explora – Il Museo dei Bambini Società Cooperativa Sociale Onlus
Roma, Via Flaminia 82 (parcheggio riservato, via Flaminia 86)
Chiusura: lunedì
Ingresso: bambini € 7; adulti € 6; scuole € 6
Info: 06/3613776

MOSTRA - Quando l’arte diventa spot

24 aprile 2008

Il David in jeans, la Gioconda con la messa in piega, un Campari servito dalla barista delle Follies Bergère di Manet... Da molti anni spot televisivi e manifesti pubblicitari giocano ad associare, far contrastare, combinare in nuovi accostamenti arte classica e messaggi moderni. Vediamo come la cultura classica continua a manifestarsi nei meccanismi della comunicazione d’oggi.

Il David in jeans, la Gioconda con la messa in piega, il quadro di Picasso rivisitato con le scatole della pasta Barilla, un Campari servito dalla barista delle Follies Bergère di Manet, la Venere di Botticelli che indossa un diamante De Beers. Un classico, se è veramente tale, non teme la rielaborazione, e neppure la dissacrazione e la falsificazione. Anzi: attraverso la reinvenzione o il gioco ironico del creativo pubblicitario, il classico resiste all’usura del tempo, dà prova della sua potenza estetica, rilancia l’energia del suo proprio, inimitabile, segno.

Convocati come testimonial di eccezione, provocati a uscire dagli ingessati stereotipi della museificazione, i classici dell’arte antica, rinascimentale, moderna, trovano nella pubblicità un terreno eccezionale di rivalorizzazione e di nuova vitalità.
Proprio l’accostamento tra arte classica e pubblicità è stato il fil rouge di una piccola ma interessantissima mostra, da poco conclusa, alla Triennale di Milano, dal titolo “Classico Manifesto”.

«I classici traggono gran beneficio dall'uso improprio che ne fa la pubblicità - ha detto la curatrice della mostra Monica Centenni - mentre la pubblicità citando il classico mette in movimento miti, simboli e migliora la sua efficacia grazie al contatto con il patrimonio culturale condiviso.

Il lavoro del creativo pubblicitario rivitalizza il classico e, così facendo, rimette in circolo saperi, oggetti e stili della memoria collettiva».
Un messaggio nuovo, insomma, colpisce di più se viene presentato da un “amico di lunga data”, cioè un capolavoro, di quei capolavori radicati così profondamente da accompagnarci sempre. Ecco perché, in parole povere, un paio di jeans indossati dal David di Michelangelo fa più colpo e si imprime meglio nella mente del pubblico dello stesso paio di jeans addosso a un ragazzo, seppure bellissimo.
A queste conclusioni ci arrivò un curioso personaggio, vissuto a metà tra Otto e Novecento, il professor Aby Moritz Warburg. Ebreo di sangue, amburghese di cuore e fiorentino di anima – come amava definirsi – passò la sua vita a studiare: prima storia dell’arte e psicologia nelle università tedesche, poi il comportamento degli Indiani d’America, poi la pittura fiorentina del Rinascimento.


Figlio di una famiglia di ricchi banchieri, lasciò al fratello la conduzione e la proprietà degli affari a condizione che gli fosse permesso di acquistare tutti i libri che desiderava. Si trovò così a poter costituire la più innovativa delle biblioteche, dove si divertì ad accostare epoche e culture, raffrontando immagini di origini diverse, ma di valenza analoga.
Pitture, sculture, monete venivano a formare un complesso caleidoscopio, in cui lui ricreava un ordine proprio. In sostanza faceva collegamenti innovativi tra passato e presente, così da proporre modelli di comunicazione particolarmente efficaci, partendo da “schemi fondamentali del pensiero” elaborati dalla cultura classica, radicati nella psiche umana.

Warburg finì in manicomio, non si sa se per colpa dei libri, del suo gioco mentale disordine-ordine o per la malignità della sua epoca conformista. Tornò poi a fare conferenze e scrivere articoli, finché non morì lasciando un piccolo gruppo di discepoli che continuarono i suoi studi e mantennero viva la biblioteca ormai di 65.000 volumi.
Uno di questi, intuendo che la Germania di Hitler non sarebbe stata tollerante con questo tipo di studi, noleggiò una nave ad Amburgo e portò la raccolta in salvo a Londra, dove tuttora esiste il Warburg Institute, centro di studi di sofisticata intelligenza.

PAROLE - Apprendere al museo: EDUTAINMENT?


7 aprile 2008


Edutainment: espressione composita usata di frequente per l’apprendimento nei musei, che include i significati di "istruzione" e "divertimento" quasi fossero poli opposti. Eppure non sempre è così…


EDUTAINMENT è un’espressione ormai comune che viene usata, e talvolta abusata, per descrivere il carattere dell’apprendimento nei musei. Con questa parola si cerca di creare una combinazione tra education (istruzione) ed entertainment (divertimento), e nel farlo si posizionano questi due concetti come se fossero necessariamente due poli opposti.
I sostenitori dell’edutainment considerano la didattica per lo più come una medicina amara che va passata nello zucchero dell’intrattenimento per diventare commestibile. O peggio, appartenendo questi di frequente alla categoria degli operatori del marketing, cercano di promuovere l’edutainment vantando il fatto che sarà tanto divertente usare i loro “prodotti” da non rendersi nemmeno conto di stare imparando, come se imparare fosse l’esperienza più spiacevole del mondo.
L’idea che l’apprendimento possa essere incoraggiato nascondendo il fatto che stia avvenendo ci sembra deprecabile, prima di tutto perché si tratta di un inganno e, in secondo luogo, in quanto chi apprende consapevolmente apprende di più di chi non ha alcuna cognizione di ciò che sta facendo.
Per motivi simili, e specialmente in ambito britannico, in molti preferiscono sostituire la consolidata, ed effettivamente austera, espressione “museum education” con “museum learning” (apprendimento). Altri ancora, proprio per sottolineare che education ed entertainment non devono essere necessariamente agli antipodi, usano chiamare il modo di apprendere nei musei “playful learning” (apprendimento giocoso).
Al di là delle questioni di terminologia, la distinzione tra didattica e divertimento, è vero, rinforza l’idea di un sistema didattico e accademico che usa metodologie d’insegnamento basate su riferimenti culturali appartenenti a classi sociali medio-alte, e su sistemi di esame che creano una élite intellettuale. Quando invece la società desidera offrire un sistema didattico più inclusivo, il divertimento è usato frequentemente come metodo d’insegnamento.
Il ruolo del gioco nell’apprendimento è ormai appurato, si sa quanto divertirsi a imparare accresca le motivazioni di chi apprende; e per quei gruppi sociali che non hanno avuto buoni esiti con i sistemi educativi tradizionali, la motivazione è un elemento essenziale.
Naturalmente applicare l’“intrattenimento” al museo deve essere considerato un’operazione molto seria e deve rispondere a criteri rigorosi: i prodotti dell’edutainment, o come lo si voglia chiamare, dovrebbero essere innanzitutto di sostegno ai tradizionali processi di acquisizione delle conoscenze e, in secondo luogo, dovrebbero mirare a trasformare in un soggetto attivo e partecipe del processo di conoscenza il loro fruitore finale.
Di frequente, tuttavia, i produttori – che coincidono con le imprese produttrici di videogiochi – puntano più spesso sull'offerta di “giochi didattici”, più o meno interattivi, che su prodotti effettivamente basati sulla ricerca e quindi in grado di offrire un effettivo contributo alla conoscenza del bene culturale.
Strumenti del genere dovrebbero soddisfare contemporaneamente tanto i direttori quanto il pubblico dei musei: i primi richiederanno che i loro contenuti siano rispondenti e coerenti con i risultatati raggiunti dalla ricerca; i secondi richiederanno che insieme alla qualità dei contenuti, ci sia la possibilità di una piacevole interazione e partecipazione ai processi di apprendimento.
L’enfatizzazione dell’aspetto ludico, molte volte, induce a pensare che un approccio simile sia principalmente destinato al pubblico dei più giovani e per questo si tende a semplificare fortemente le informazioni che vengono fornite. Si dimentica così che un gioco cattura se presenta un certo livello di complessità (si è più interessati da attività impegnative, ma non insormontabili) e che chi apprende non si preoccupa del fatto che le nozioni siano difficili, almeno finché queste sono strettamente connesse con le sue passioni e i suoi interessi.
Ancora troppo pochi sono gli educatori che riconoscono l’importanza dell’effetto trainante che possono avere gli interessi e le passioni per i loro discenti, giovani e meno giovani. Per di più, una quota non marginale di domanda è costituita dal pubblico adulto. Quest’ultimo, come mostrano recenti indagini, ha forse ancora più bisogno delle fasce più giovani di essere “riammesso” nei processi di apprendimento.
Facilitare la trasmissione delle conoscenze tramite l’intrattenimento è senz’altro un’operazione apprezzabile. È giusto che un museo si preoccupi anche di dilettare, ma la sua collocazione, sempre più spiccata negli ultimi anni, sul mercato del tempo libero rischia di offrire molti esempi dove l’edu- è minimo e il -tainment domina.